Ne ho avute almeno cinque…no sei. Sette con l’ultima.
L’ultima … solo per ora: non si sa mai.
Di cosa?
Ma di prove tecniche di emigrazione, come diceva un caro amico. Perché mi sono spostata e spostata. Ho vissuto in 3 continenti, 11 paesi e almeno 15 città diverse. E ancora non trovo pace.
Da almeno quattro anni a questa parte, i professionisti dell’informazione hanno ammassato i giovani e non più giovani italiani in una non ben chiara categoria chiamata cervelli in fuga. E leggo le loro storie. A volte disperate, altre tipiche di chi ha una famiglia agiata alle spalle e può permettersi il lusso di fare un’esperienza all’estero spacciandola per fuga, altre ancora di effettivi cervelli in fuga, persone alle quali il contratto di portaborse universitario già non bastava più perché voleva metter su famiglia, aveva un mutuo o semplicemente voleva rendersi indipendente.
Ma se bisogna fare del populismo, tutti sono figli di Iddio e tutti grandi cervelli in fuga.
Ci penso adesso, mentre sto prendendo l’aereo per gli Stati Uniti. Un viaggio a metà tra il dovere e il piacere. Atterro a New York fra 14 ore. Meno male che mi somministreranno almeno 8 ore di film e forse sarò così fortunata da non avere come vicino di poltrona il logorroico compulsivo.
Quando arrivi in America, la prima cosa che vedi è la bandiera americana.
La seconda cosa che vedi è … la bandiera americana.
E, casualmente, è anche la terza.
È il leitmotiv dell’America: la bandiera a stelle e a strisce.
Dopodiché, attraverso tortuosi corridoi, si arriva alla dogana.
La frontiera aeroportuale è strutturata più o meno come il pedaggio autostradale.
Arrivi, ti infili nel corridoio e il grosso grasso poliziotto di frontiera, perennemente irritato, ti saluta e ti subissa letteralmente di domande. Specialmente se non sei un turista.
Il turismo porta al consumo, quindi è ampiamente accettato.
Se cerchi lavoro, invece, le leggi di immigrazione sono un po’ più peculiari.
Fatto sta che sono arrivata. Puntuale come un orologio svizzero. Ho passato la dogana – non senza qualche intoppo, come al solito – e sono stata accolta da un fantastico Welcome to New York.
Da lì ho preso un taxi (per fortuna paga l’azienda altrimenti mi veniva un salasso) e sono andata nell‘Hotel Chelsea. L’Hotel è noto per la sua storia e purtroppo credo sia dai primi del ‘900 che non lo rinnovano. Stranamente non ho pagato moltissimo… devo pur dire che rimango pochi giorni qui, poi mi sposterò. L’Hotel è decisamente da visitare… non è proprio il massimo della pulizia però è proprio particolare.E adesso mi aspetta la Grande Mela.
Decisamente non so se vivrei qui. La gente sembra isterica, mangiano tramezzini e bevono caffè chilometrici dal sapore orribile. Eppure, ci ho anche pensato. Chissà come sarebbe vivere a New York…
Non credo sia facile. Se mi allontano dal centro vedo un immenso suburbio, una periferia affamata che cerca di strappare un po’ di vita e di ricchezza a un centro fastoso. Caos, macchine, clacson, milioni di anime ammassate ad un semaforo o in metropolitana…
E ho trovato subito un amico con il quale condividere il sacchetto di mandorle che mi son portata…
I’m an alien, I’m a little alien… I’m a squirrel in New York… (parafrasando Sting).
Se fossi stata 30enne nel 1950 non c’è dubbio che mi sarei trasferita qui all’istante. Ma decidere oggi di fare il cervello in fuga andando a lavorare al McDonald o in uno Starbucks … questo non so se lo farei.Mi faccio un altro giro del parco, va’ … e ci rifletto un po’.
Un saluto
Valigia Blu