I mobili sono la sua passione da sempre. Soprattutto le cucine. Osservare le differenti combinazioni di cassetti e sportelli, confrontare le disposizioni non sempre intuitive delle manopole del gas, contare i ripiani dei frigoriferi, tutte queste operazioni gli regalavano un brivido alla schiena pari a quello che lo percorreva a ogni pagina riempita. “Se avessi i soldi cambierei una cucina al mese”, ripeteva a quei pochi curiosi di conoscere da lui la via più facile per vivere il successo.
E le domeniche della sua vita da single, che pure non aveva scelto e che talvolta gli stava stretta fino a farlo soffocare, le trascorreva tutte alla ricerca di nuove cucine, pareti da accarezzare con le dita. Grandi centri commerciali, piccoli empori dell’usato, marche importanti fabbricate in serie o piccoli gioielli dell’artigianato, lavorati a mano da chi ancora osava inseguire quella passione. Tutto per lui era fonte di estasi e di ispirazione. E immaginava… immaginava… Al punto che ogni suo racconto, ogni suo romanzo, conteneva una scena ambientata in una cucina. Disseminata fra le pagine, ambientazione talvolta determinante, talvolta marginale fino a risultare impercettibile. Ma sempre, ed è stato così fin dalla prima volta, la scena in cucina era la prima a essere scritta. Quella da cui tutto partiva.
L’ispirazione arrivava sfiorandone un cassetto, o contando mentalmente gli sportelli, talvolta in un meccanismo di attrazione al primo sguardo che gli provocava la medesima sensazione mentale di pace conseguente al più intenso degli orgasmi. Arrivava improvvisa, penetrandolo nelle viscere come una saetta esplosa nel silenzio della notte: l’istantanea di un incontro, uno sguardo o una parola consumata fra quelle pareti. Aveva carta e penna sempre con sé: questa la ragione per cui, in implicita avversione ai dettami della moda e a ogni norma di buon gusto, portava solo indumenti con grandi tasconi.
Spesso tramutava in parole quell’istantanea appoggiandosi alla stessa stanza che l’aveva generata, ovunque essa si trovasse, come un potenziale acquirente che volesse verificarne la solidità. O usciva immediatamente, una corsa infiammata fino alla prima panchina, al primo muretto, al primo angolo di parete, fino a che la scia di quell’estasi così grande albergava ancora in lui, e l’immagine proiettata nella sua mente, con le luci e i colori di una pellicola anni Trenta, diventava lettere, e poi sillabe, infine sequenza di parole. Non sempre ordinata, non sempre chiara, come prassi richiederebbe. Perché era da lì che l’ordine assumeva il suo principio: da lì, da quella fotografia sbiadita divenuta verbo, la parte razionale della sua mente prendeva a dipanare la storia. A immaginarne trama, personaggi, a tesserne lo sviluppo e a osservarne le vicende come una mano amorevole di un adulto che insegna a un bimbo a muovere i primi passi.