Nel 1996 è uscito “Escape from L.A.” di John Carpenter, con un Kurt Russell cinico e pompato, proiettato in un futuro idealmente prossimo venturo, con strade deserte, tombini fumanti e mezzi di trasporto improbabili ai quali ci aveva abituato il cinema anni Ottanta. Se nella nostra realtà gli scenari sono ancora (per poco) inverosimili, la fuga da Los Angeles è già iniziata da tempo.
La LosAngelisation è un fenomeno quasi inarrestabile di sprawl urbano e dispersione territoriale che ha colpito le grandi metropoli a partire dal secondo dopoguerra, toccando in particolar modo la città californiana. La crescita incontrollata di Los Angeles ha determinato la perdita definitiva di una centralità già quasi inesistente nell’impianto americano, la moltiplicazione di block regolari lungo la costa, un’estensione tale da impedire la regolarizzazione dei servizi e dei mezzi di trasporto pubblici. Una diffusione lenta e destabilizzante di zone residenziali anonime dove la totale assenza di punti di riferimento, landmarks e luoghi rappresentativi manderebbe giù di testa un europeo in meno di una settimana.
L’assenza di un centro attorno al quale gravitare può portare a una monotonia unidirezionale, ma può anche donare l’esclusiva opportunità di uscire letteralmente d’orbita. Perdersi in una maglia labirintica, ampia nella sua estensione ma opprimente nella sua apparenza, dove ogni isolato, ogni edificio, ogni mattone è uguale a quello che gli sta accanto significa dare ai dettagli, normalmente spiccioli, l’importanza di modificare la percezione d’insieme, rendendoli soggetti fondamentali dello sguardo e del pensiero.
Seguendo il filo, la ricchezza di un genere come il noise sta nella possibilità di scegliere quali spazi esplorare in un territorio vasto, uniforme nei materiali e nei colori, e in che posizione porsi rispetto a un’isotropia massiva che può condurre a qualunque risultato.
Se le possibilità sono infinite e incontrollabili, Dominick Fernow riesce a percorrere un numero allarmante di strade in novanta minuti, con una popolazione eterogenea di suoni che arricchisce una maglia fluida di basi che tessono il disco. Frozen Niagara Falls oscilla entro gli estremi di una teatralità quasi languida e di una furia da voltastomaco, sposalizio non nuovo nella produzione di Prurient che qui raggiunge una sintesi definitiva.
Gli arpeggi arcaici di “Myth Of Building Bridges” che aprono le porte ai battiti marziali di “Dragonflies To Sew You Up” scorrono come una melodia di fondo bagnando i rigetti più harsh e white noise (“A Sorrow With A Braid”, “Poinsettia Pills”) e gonfiandosi nei momenti di pausa (“Shoulders Of Summerstone”). Un intermezzo vivace, “Wildflowers (Long Hair With Stocking Cap)”, cede il passo a “Greenpoint”, dove una chitarra malinconica si scontra con un ambient duro e sporco, apice di un connubio acustico-digitale che abbraccia l’intero disco. Un precipizio esistenziale continua in “Cocaine Daughter”, una pausa tra i due capitoli della title-track “Frozen Niagara Falls”, il primo freddo e apatico, il secondo denso e ribollente. Le note delicate di apertura chiudono l’album con un lontano senso di oppressione, nella ricerca di una via di fuga da questo labirinto del quale non è nemmeno ben chiaro se si voglia trovare l’uscita o meno.
Se abbiamo detto di come l’estensione a macchia d’olio potesse dare frutti infausti, Fernow riesce ad allungarsi agli estremi e a condensare questa dispersione, cieca e al contempo ricca di scenari e anfratti nascosti, in un nucleo nevrotico di saturazione ma bisognoso di aria fresca. E probabilmente vivere a Los Angeles avrà fatto un po’ schifo anche a lui.
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