Perché soffocarlo in culla, reprimerlo al primo vagito? Il malessere interiore è il grido dell’essere imprigionato che chiede emersione, luce, nutrimento. Benedetto sia il sintomo, voce autentica dell’anima repressa, occasione per tornare a essere. La perdita del Sé può produrre naufragi esistenziali in infinite varianti altrimenti detti disturbi; guarire è scoprire o riconoscere chi si è; scoprirsi vivi forse per la prima volta. Tutte le tradizioni spirituali raccontano che, in un dato momento della nostra storia, individuale o collettiva, siamo precipitati, abbiamo perso il paradiso, la condizione originaria della mente. Tutte le terapie vogliono restaurare uno stato d’integrità e di ‘innocenza’; così anche la psicoterapia. Ma se, questa via di guarigione ha smarrito, lei per prima, la propria vera identità e non si raccorda con le proprie origini spirituali, come affrancarsi dalle proprie prigioni mentali?
L’assedio dei protocolli, delle scuole, degli indirizzi, dei tecnicismi, dei proclami come delle mode, l’autoreferenzialità narcisistica e l’obiettivo monomaniacale della cancellazione del sintomo scambiato per peccato originale, non giovano all’ancora giovane disciplina. La psicologia che nega se stessa si ammala, non cura, può al contrario nuocere gravemente alla salute di chi intende guarire. Deve tornare semplicemente a essere se stessa, secondo un percorso circolare, realizzando il diventa ciò che sei di nietzschiana memoria. Temi affrontati dalla psicoterapeuta Paola Matteucci in una conferenza presso il centro Armonici sentieri di Roma dal titolo ‘Dall’altra parte dello specchio’, che offre spunto per considerazioni generali. Probabilmente i lancinanti sbandamenti e le crisi di senso di questa epoca, tralasciando psicosi e gravi disturbi psichiatrici, sono figli della perdita del sacro; la discesa agli inferi individuale, collettiva, è frutto, oggi più che mai, del disconoscimento della vera natura dell’essere. Di una cataratta che affligge tanto gli uomini che i saperi. Al riguardo restano attualissime le riflessioni di Jung: “Sono stato contattato da clienti provenienti da tutte le parti del mondo e, senza eccezione, non ne ho trovato uno che non avesse un problema fondato sul suo atteggiamento personale nei confronti della religione, del rapporto con il trascendente e con la dimensione del trascendente. Tutti si ammalano per aver perso questo collegamento che in passato era assicurato dalla vita delle diverse religioni”. Jung ne era convinto: “Nessuno può essere guarito se non riesce a raggiungere un atteggiamento religioso”.
In sostanza, ci si può ammalare di pochezza, di inconsistenza, di negazione e asfissia spirituale. È necessario che la psicologia ritrovi la sua naturale vocazione spirituale, si rianimi per rianimare, sia disciplina dell’anima quale è stata anche quando non si chiamava così. Psiché è soffio vitale, respiro, anima. Che l’Occidente abbia fatto di tutto per dimenticarlo e dopo aver razionalizzato, diviso, separato, ridotto la mente a un singolo emisfero, si volga a Oriente per ritrovare quello che era ed è nelle fondamenta del suo esistere, è fenomeno inflazionato e spesso purtroppo portato al ridicolo. “Noi occidentali abbiamo cominciato ad assumere un’ottica riduzionista entrando sempre più nel micro, così nelle scienze. Nel 1859 Wilhelm Wundt considerato il padre fondatore della disciplina, pubblica ‘Elementi di psicologia fisiologica’ ed è la nascita ufficiale della psicologia scientifica”.
È una nascita a partire da uno strappo: l’anima è lasciata alla filosofia perché la novella scienza mira a stabilire criteri oggettivi per definire il comportamento umano applicando i metodi delle scienze naturali. E dimentica. Ricorda Paola Matteucci: “In greco verità è aletheia con quell’alfa privativo a indicare che è ciò che non si dimentica né si può cancellare; viceversa il Lete è il fiume dell’oblio. Apocalisse è rivelazione, disvelamento; Kalipso è la dea greca dell’oblio, colei che nasconde ed è rappresentata con un velo sul viso. Come la Maya indiana che cala il velo sugli uomini lasciandoli alle apparenze delle cose”. Le narrazioni fondamentali sul nostro centro vertono tutte sulle fondamenta divine misconosciute. In principio Buddha ci ha insegnato a riconoscere e onorare il dio interiore in noi. Giordano Bruno ammonisce: “Che ci piaccia o no, siamo noi la causa di noi stessi. Nascendo in questo mondo, cadiamo nell’illusione dei sensi; crediamo a ciò che appare. Ignoriamo che siamo ciechi e sordi. Allora ci assale la paura e dimentichiamo che siamo divini, che possiamo modificare il corso degli eventi, persino lo Zodiaco”.
Per arrivare alla verità dobbiamo soltanto ricordare. Paola Matteucci: “Nel Teeteto di Platone Socrate incontra uno schiavo che da solo riesce a capire e dimostrare il teorema di Pitagora: la verità è tutta dentro noi stessi. Dobbiamo porre la domanda giusta per arrivare alla verità. Dentro di noi ci sono tutte le domande e tutte le risposte, anche quelle sbagliate. Noi siamo esseri spirituali. Che cosa è spirituale? Il riconoscimento di quello che ognuno di noi è, il riconoscimento della propria essenza che trascende spazio e tempo”. Difficile ricordarlo anche per gli psicoterapeuti se l’ipoteca materialista impedisce il riconoscimento scientifico della dimensione spirituale dell’essere umano. Così “abbandonato l’obiettivo vero della psicologia, ovvero la trasformazione del metallo in oro secondo il dettato degli alchimisti” tutto si riduce a poca cosa: rintracciare il sintomo, normalizzare l’individuo. Mentre il processo terapeutico, oltre l’eliminazione del sintomo, deve servire ad aiutare la persona a diventare ciò che è. Paola Matteucci: “La dimensione spirituale è il vero luogo interiore imprescindibile anche per l’intervento terapeutico. In questa prospettiva il sintomo diventa qualcosa non di cui mi devo liberare ma una parte che conduce altrove, un alleato che fa scoprire un mondo dentro di me che neanche pensavo di avere. Inizia ciò che la mitologia ha definito viaggio dell’eroe, andare verso l’ignoto, confrontarsi con le paure, riconoscere ciò che non è visibile così da superare il duale e arrivare all’esperienza divina di vivere da essere umano”. Ancora Jung viene a supporto di questo processo, è il caso di dire, individuativo: “Non c’è presa di coscienza senza sofferenza. In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima. Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia”. Tutte le tradizioni spirituali di ogni luogo ed epoca invitano a rimanere in contatto con l’interiorità particolarmente nel dolore: agli inizi del XX secolo, Georges Ivanovič Gurdjieff (composita figura, perché filosofo, scrittore, mistico e ‘maestro di danze’ armeno) combinando sufismo, tradizioni religiose e tecniche psicofisiche ne fece il fondamento della sua celebre scuola per lo sviluppo spirituale che intendeva risvegliare l’uomo dal suo stato letargico in vita.
Sostiene Claudio Narajo, psichiatra, psicoterapeuta, antropologo, a cui tanto è debitrice la psicoterapia transpersonale (definita la quarta forza, dopo la prima, il comportamentismo, la seconda, le teorie psicanalitiche classiche, la terza, la psicologia umanistica): “La condizione umana è caratterizzata dall’avere mancanza dentro di sé. La maggioranza delle persone non sono né psicotiche né nevrotiche ma normopatiche, hanno perso una parte di sé e non lo sanno, sono macchine, vanno in automatico. Il dolore è mancanza universale. Non è sete d’amore ma di essere”. La via d’uscita è la stessa indicata dalla tradizione sufi, dalla tradizione buddista, da tutte le tradizioni spirituali: la conoscenza del livello più profondo della realtà. Praticare la via umile attraverso la devozione. Ma la nevrosi è anche un male sistemico, la caduta collettiva che richiede una cura non solo individuale, ma il cambiamento collettivo della coscienza. Narajo: “Occorre recuperare l’animale istintivo, la libertà, liberare lo spirito dionisiaco in noi. Ma anche l’aspetto devozionale dell’intelletto, l’intuizione, andati persi. Occorre tornare alla conoscenza di sé. E poi più che conosci te stesso, vale il cura te stesso! Permettere il flusso della vita, arrivare a una trasparenza”.La guarigione è, per riprendere una definizione di Roberto Assaggioli, psichiatra e teosofo, fondatore della Psicosintesi, riscoprirsi “cittadino di due mondi, coi piedi per terra e la testa alta verso il cielo”. Riconoscere in sé la caratteristica intima dell’Io: l’auto-trascendenza, la continua tensione ad andare oltre sé stessi: niente a che vedere con la ricerca del piacere o del potere, argomenti privilegiati delle psicologie classiche, oltre i costrutti freudiani fondamentali ma costrittivi e limitanti la psiche. L’uomo non è solo un animale in gabbia dilaniato tra natura e civiltà, ma il riflesso di un Sé trascendente.
Tra tradizioni antichissime, conferme ed exploit neuro scientifici, nonché le esigenze di una società più che liquida liquidata, la psicologia dovrebbe essere tramite tra l’anima e lo spirito universale. Altrimenti rischia di smarrirsi nei tecnicismi, nelle formule, nel mare dei sintomi. E il terapeuta dovrebbe essere un guaritore, la versione aggiornata dello sciamano, scevra da connotati magico-misterici magari per farne profitto. Ma le resistenze, figlie di una logica duale e di radicati dualismi cartesiani, sono ancora tante. Ci ricorda Hilmann nel suo saggio Il mito dell’analisi: “C’è voluto un bel coraggio a parlare di anima in ambito psicologico, lo stesso identico coraggio che ha spinto Jung a parlare di Alchimia, di Astrologia, di I Ching, di fenomeni occulti, persino di Ufo. C’è voluto coraggio, perché ‘anima’ non è un termine scientifico e nelle opere di psicologia compare solo tra virgolette come per impedire di infettare l’ambiente scientificamente sterile che la circonda”.