Le teorie della narratizzazione in psicoterapia e i punti di contatto con la medicina narrativa. L’idea di un sé narratore e delle storie sempre in evoluzione attraverso cui ci si definisce e si comunica
di MAURIZIO PAGANELLI, MARIA TERESA TOSI *
La parola, orale o scritta, è stata al centro della cura fin dagli albori della psicoanalisi. E non diversamente nella medicina, l’ascolto e il racconto della malattia sono stati alla base della diagnosi medica. Ogni persona ha una storia autobiografica (o meglio, molteplici storie in movimento, anche legate alle diverse fasi della propria esistenza) attraverso cui si definisce, comunica e si mette in relazione con gli altri.
La teoria di Jerome Bruner sul pensiero narrativo rappresenta un significativo punto di contatto tra la medicina narrativa e l’approccio narrativo in psicoterapia. In ambedue gli ambiti si sostiene una visione dell’uomo come elaboratore di informazioni e creatore di significati, in relazione a contesti culturali, e si riconosce che le narrazioni hanno un ruolo centrale in tutte le interazioni umane e nelle situazioni in cui si voglia dare significato alle esperienze.
Bruner, psicologo americano ex direttore del Centro studi cognitivi ad Harvard ed ex presidente della potente American Psychology Association, proponeva più di venti anni fa una psicologia culturale, in cui elemento essenziale è appunto il “pensiero narrativo”, (quello che si occupa dell’intenzione, dell’azione e delle vicissitudini che segnano il loro corso) contrapposto al “pensiero scientifico” (quello che corrisponde a un sistema formale e astratto di descrizione e spiegazione). Naturalmente tutti e due i tipi di pensiero sono necessari per conoscere l’uomo, considerando che il pensiero narrativo ci avvicina alla comprensione del percorso di significato che ogni individuo intraprende all’interno di una certa cultura e dei diversi campi di relazione in cui è inserito.
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L’idea di un “sé narratore” ha fatto la sua comparsa in psicoterapia circa trenta anni fa, avendo un forte impatto su modelli e tecniche terapeutiche. Un’idea centrale nella terapia narrativa è che le persone definiscono chi sono, sia per sé stesse che per gli altri, attraverso storie autobiografiche.
Le narrazioni hanno lo scopo primario di integrare le esperienze della persona in una storia coerente, compatibile con la cultura a cui il narratore appartiene.
L’atto stesso del narrare ha una funzione di “cura” perché permette agli individui di creare nessi e scoprire o ricostruire sequenze che diano ordine e senso anche a vissuti o esperienze incomprensibili o traumatici. La costruzione, o ricostruzione, delle storie avviene in contesti sociali e culturali che ne influenzano forme e contenuti. Le storie narrate in psicoterapia si riferiscono ad un soggetto con delle intenzioni (scopi, obiettivi, desideri…) ed il narratore può sempre ricostruire la propria storia in maniera da aprire nuove opzioni per la propria vita.
Le teorie narrative utilizzate nei modelli psicoterapeutici possono essere raggruppate, molto sinteticamente, in due grandi filoni. Un filone è collegato a quegli autori che hanno studiato le narrazioni spontanee dei pazienti per avere accesso ai processi psicologici nascosti o inconsci, che possono riguardare, per esempio, i principali conflitti vissuti dalla persona. Un esempio fra i tanti: le ricerche di Luborsky e collaboratori sul transfert hanno “scoperto” che le narrazioni spontanee dei pazienti cambiano in alcune componenti relative alla percezione degli altri o di sé come conseguenza di una processo terapeutico efficace. Potremmo far rientrare in questo filone anche gli studi di Main che hanno collegato la qualità delle narrazioni autobiografiche al tipo di attaccamento che la persona ha sviluppato. Un risvolto interessante di queste ricerche riguarda la possibilità di prevedere il tipo di attaccamento che i genitori svilupperanno col figlio a partire dall’analisi delle narrazioni sui propri legami nell’infanzia. Infatti, sono state riscontrate forti correlazioni tra la capacità dei genitori di narrare le proprie esperienze infantili di attaccamento con coerenza e integrazione degli aspetti positivi e negativi e il tipo di rapporto sicuro che instaureranno con il figlio.
L’altro filone narrativo, più recente, è invece rappresentato dalla cosiddetta terapia post-psicologica, sviluppatasi alla fine del ventesimo secolo, che vede la terapia soprattutto come un processo sociale. In questi modelli le narrazioni hanno un ruolo centrale nella terapia perché comprendono diverse dimensioni:
- una dimensione individuale, espressa dalla storia autobiografica unica e speciale creata dalla persona;
- una dimensione interpersonale, perché narrare una storia implica avere un ascoltatore le cui risposte daranno forma allo sviluppo di una storia ulteriore;
- una dimensione culturale, perché le storie fanno sempre riferimento alle risorse e ai limiti offerti dalla cultura di appartenenza.
Questo filone mette più in luce il ruolo continuativo e trasformativo delle relazioni nella costruzione della vita mentale, tanto che si può parlare di una relazione analitica o psicoterapeutica co-creata, una narrazione a due che, con le dovute differenze e asimmetrie tra paziente e terapeuta, avrà un impatto sull’esperienza profonda di tutti e due i partecipanti alla relazione.
Di fatto, e per concludere, quando si parla di “narrazione” (sia in medicina che in psicoterapia), si è di fronte ad un sistema complesso, inscindibile dalla relazione. Anche per questo va affrontato, studiato ed “utilizzato” con particolare attenzione e rispetto.
* Psicoterapeuta, analista transazionale didatta, docente Scuola Superiore in Psicologia clinica SSPC-IFREP: http://www.repubblica.it
Commento del Dott. Zambello
La psicoterapia come la terapia della parola dove la “parola” sta al posto dei farmaci, bisturi ed ogni altro sussidio medico. Il risultato quindi dipende dalla “qualità” delle parole e da come vengono somministrate. Ancor più, il racconto, l’autobiografia diventa specchio, possibilità di vedersi e quindi terapeutica. Suggestivo ma, non vero. E’ vero, alla fine c’è il ricordo, il racconto ma, non concordo affatto che questo possa essere la via da scegliere fin dall’inizio della terapia ma, il finale ciò che uno riesce a raccontarsi della sua storia ed anche della terapia stessa. Essa, la terapia, si muove su un terreno ben diverso. E’ il mondo dell’irracontabile delle pulsioni incontenibili, dell’inconscio senza fine, degli archetipi non avvicinabili. Li, paziente e terapeuta stanno assieme in una unione, linguaggio, dove la parola non c’é. E’ vero, i cognitivisti credono che non sia possibile entrare nella mente, nell’inconscio, nel “ black box”, la psicoanalisi pensa invece che li, all’inizio, sia la genesi di tutto.
Video Psicoterapia e Psicoanalisi: http://youtu.be/RZSqApRzoGI
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