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PSYCHO, o psyco per gli amici *

Creato il 07 aprile 2011 da Duffy
Psycho. 1960. Hitchcock.
Bisogna essere precisi perché ne hanno fatti tre sequel e un remake, quest’ultimo diretto da Gus Van Sant.
Tutti lo conoscono, almeno per fama.
Ma attenzione: i film universalmente riconosciuti come capolavori spesso vengono guardati tanto per averli nella cartella dei ce l’ho, predigeriti da tutte le valutazioni che abbiamo sentito e assorbito, e si finisce per avere un’idea superficiale proprio di quelle opere che hanno reso l’arte cinematografica un’esperienza così intensa ed evocativa.
Oppure ci arriviamo pieni di speranze, per poi restare delusi, perché non si riesce a contestualizzare nel periodo storico trame, tabù, tecnologie e azioni censorie.
Psycho non è sopravvalutato, e Hitchcock è un genio, con un gran senso dell’umorismo, quindi un genio+.
Il film inizia con un’inquadratura panoramica su uno skyline cittadino, per stringere subito su una finestra, e da lì entrare nell’intimità di una camera d’albergo, con due amanti che si stanno rivestendo.
Il bello della storia, che parte banale, nella quotidianità di un amore clandestino, è che subito la brava ragazza, che non ci scandalizza certamente per essersi fatta vedere in reggiseno, cambia subito registro di comportamento. Basta che il suo uomo le rimandi un possibile matrimonio adducendo motivi economici, e che un ricco cliente lasci molto contante nell’ufficio dove lei lavora, e questa biondina dagli occhi sbarrati non ci mette un secondo a pensare al furto. Prende i soldi e scappa.
E noi ci troviamo nel giro di un attimo dentro un giallo; giusto il tempo di veder passar il buon vecchio Alfred davanti alla macchina da presa, a mo’ di firma, com è solito fare in tutti i suoi film (in realtà in quelli muti non lo faceva ancora).
La ragazza fugge, e ti viene un po’ d’ansia quando il suo capoufficio, che le aveva dato il pomeriggio libero perché la credeva indisposta, la vede in auto, mentre lui sta attraversando la strada. Non è una delinquente, e le voci che sente mentre guida non sono altro che i suoi rimorsi, tutti i fatti della giornata che le si affollano in testa.
Già sembra cedere, anche se continua ad andare avanti, ma in malo modo, attirando le curiosità di un poliziotto quasi comico nel suo non intervenire davanti all’ovvio. Penso che la cosa non sia una svista, ma un’infiltrazione comica del nostro regista, o almeno voglio credere che sia così.
Dopo anni passati a guardare serie tv poliziesche di rara precisione tecnica, con ottimi cast, può sembrare un po’ sopra le righe la delineazione dei personaggi, i loro comportamenti, e, su tutti, il doppiaggio fatto in italiano. Ma riflettiamo su quello che ho detto all’inizio: contestualizzare, sempre.
Finalmente al motel, alla casa che mille volte è stata citata, in realtà una scenografia dentro gli Studios della Universal, non una vera location.
Arriva Norman, gentile e premuroso, che si offre, anche nel raccontarsi, con la generosità che solo coloro che soffrono di enorme solitudine sanno mostrare.
Fino all’ultimo il regista ci fa pensare ai soldi, quei maledetti soldi che possono incastrarla, e non ci vorrebbe proprio, perché ormai è chiaro che la ragazza si è ravveduta.
Ecco Hitchcock: in un periodo in cui tutto, o quasi, era a livello fiction nostrana, con delle spieghe che andavano bene anche per i sordi, muti e ciechi; lui cambia strada, sterza all’improvviso. Se non lo segui sono affari tuoi.
Lo stesso regista aveva severamente vietato di far entrare persone nei cinema a film iniziato, proprio perché la protagonista muore ad un terzo del film, cosa assai inusuale.
Dal poliziesco passiamo al triller, quasi horror per l’epoca. Posso immaginarmi le reazioni al cinema di fronte alla famosa scena della doccia. E’ vero che la scena è imbarazzante, con nessuna coltellata andata a segno. Ma signori miei: una donna nuda negli anni 60, anche se non si vedeva nulla…vi rendete conto?
E comunque la doccia non se la fa tranquillo più nessuno già da quell’epoca. Negli anni l’idea di dover stare all’erta sotto lo scroscio dell’acqua l’hanno incalzata in molti, Vestito per uccidere su tutti. Ma lui ha fatto LA scena nella doccia. Come dire che di chitarristi bravi ed estrosi dopo Hendrix ce ne sono tanti.
Ma Hendrix era unico, il primo a suonare in quel modo.
Mai scordarsi che è arrivato prima, anche se noi l’abbiamo visto dopo.
La scena è forte, e la scelta del bianco e nero nel 1960 è voluta, per evitare la censura alla vista del sangue. La conclusione poi, con l’occhio e lo scarico del bagno, è da riguardare più volte.
Non è tutto qui. Questo è quello che spicca, come la panna su una torta.
Andiamo più avanti, quando Arbogast va a cercare informazioni al motel, e la testa di Norman si protende verso di lui, porgendoci la gola. Ormai il nostro anti-eroe ha detto troppe bugie, si è contraddetto più di una volta, e noi,SOLO NOI, vediamo la sua ansia palesata. Nella gola. Nient’altro.
Riguardo l’omicidio dell’assicuratore, vi posso dire che, sì, la scena sembra un po’ innaturale, ma perché si è dovuto ricorrere ad uno stratagemma: Arbogast sta sopra una sedia, muovendo le braccia, con la carrellata della scala sullo sfondo, a dare movimento.
Ingegnoso, no?
Le nuove tecnologie renderanno tutto più reale della realtà, ma le idee acute che questi bravi artigiani sfornavano a ripetizione sono davvero un tesoro, e i film vanno apprezzati tenendone conto.
La trama va avanti, risolvendosi in un horror. La voce della madre continua a farsi sentire, la porta della sua stanza è sempre ripresa dall’alto, con movimenti macchina fluidi come solo Hitch sa fare.
Ma il crimine non paga, ed è normale che qualcuno inizi a chiedersi dove siano finiti quei due (la ragazza prima e l’investigatore poi).
Nel finale c’è un'altra scena, che diventerà un classico dell’horror: la donna che cerca dove non dovrebbe. E tu in poltrona a dirgli: “No, non andarci in cantina!”.
Anche qui il regista sa come prenderci per la collottola. Potete sempre dire che i film dell’orrore non vi fanno più alcun effetto, ma questo è un problema di desensibilizzazione, non di qualità.
Poi il finale, in cui si fa riferimento a tutto il quadro clinico del killer, facendoci capire che non solo la mamma non parlava, ma che forse neanche lui è colpevole, completamente risucchiato nella sua follia.
L’inquadratura in cui un teschio è sovrapposto al volto dell’uomo, è una delle prime prove di messaggio quasi subliminale,atte ad aumentare la paura nello spettatore.
Il film, inoltre, è pieno di annunci muti, allusioni a cose che noi scopriremo dopo: Norman che non riesce a nominare il bagno, in cui avverrà il primo omicidio; lui che sculetta salendo le scale, già diviso tra la sua anima e quella di un intruso di sesso femminile, e piccoli dettagli su questa linea, che vi consiglio di scoprire da voi.
Altro non ho d’aggiungere, oltre che, visto questo film, vi consiglio di prendere tutta la filmografia del grande regista, o una buona parte, e di farne un sol boccone.
(* nella traduzione italiana il titolo aveva ispiegabilmente perso l'acca).

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