Lo scenario descritto da “Pulse” (2001) possiede elementi apocalittici, si sottende di contenuti esistenziali e interroga se stesso e lo spettatore, chiamato ad uno sforzo non indifferente per la cripticità della narrazione, sui grandi temi della vita.
Ma è senza dubbio la solitudine a permeare le atmosfere, le ambientazioni e lo sviluppo del film, la solitudine che persiste sia al di là che al di qua del muro dell’esistenza, un muro su cui, alla fine, restano la nostra storia e la nostra vita come un’ombra o una macchia.
In questo senso, “Pulse” non è un film dell’orrore in senso proprio, come non lo è quasi nessuna delle pellicole di Kiyoshi Kurosawa, poiché, più che spaventare in senso stretto, è raggelante.
È un’opera quasi filosofica, che muta, nel complesso del corpus dei film del regista, le prospettive, almeno in parte, del j-horror.
Seppure sia vero che le apparizioni di fantasmi sullo schermo sono terrorizzanti, quello che realmente inquieta, però, è l’uomo alle prese con se stesso, con la propria claustrofobica angoscia, con la propria solitudine, il proprio prepotente senso di abbandono. Quello che i fantasmi sembrano dirci, con la loro presenza, è che non c’è soluzione di continuità tra ciò che troviamo durante la nostra esistenza e ciò che troveremo dopo, che saremo soli allo stesso modo.
Quello che, quindi, spaventa veramente è ciò che abbiamo qui ed ora, perché ciò che ci sarà dopo non sarà molto diverso. La speranza (molto occidentale) di una vita dopo la morte fatta di paradisi e beatitudine viene demolita, o meglio, viene sbriciolata la speranza che ci sia altro, perché, in realtà, non c’è altro, dal momento che è tutto (uguale a) qui.
E se, addirittura, i morti, i fantasmi, cercano i vivi non tanto per terrorizzarli o aggredirli, quanto per spezzare, cercando di condurli tra loro, il proprio insostenibile isolamento, che si rispecchia in quello, altrettanto orribile, dei vivi, dei loro rapporti superficiali, delle loro città atomizzate, allora non c’è ragione né di essere vivi – e di gioirne – né, forse, di essere morti.
La dialettica tipicamente horror, in questo senso, viene quasi ribaltata, la proiezione è inversa e la fotografia oscura, grigia e plumbea restituisce il senso di una fine imminente.
“Pulse” procede, come spesso accade nel cinema di Kiyoshi Kurosawa, per sottrazione, nascondendo più che mostrando, sottolineandole distanze, amplificando il malessere con una narrazione gelida che, permeando tutto il film, crea una patina malsana, cupa e appiccicosa, che si mantiene tale fino a quando si infiamma all’improvviso, regalandoci alcune tra le scene più terrorizzanti del cinema horror di tutti i tempi e con una sequenza d’apertura da antologia del cinema.
In “Pulse” non ci sono elementi sanguinolenti, i topoi visivi e linguistici dell’horror brillano per la loro assenza, la paura emerge dall’angoscia del quotidiano, in cui anche i gesti più consueti e innocui si possono collocare all’origine del terrore cieco.
I vivi che vengono visitati dalle entità spettrali escono dal contatto visivo profondamente traumatizzati, per poi abbandonarsi ad uno stato di progressiva depressione e allontanamento dal mondo, finché non si tolgono la vita, in una sorta di epidemia di suicidi che dilaga inarrestabile.
Kiyoshi Kurosawa gestisce questi elementi disseminando il film di segni rivelatori, che suggeriscono il dramma di una solitudine generalizzata e senza scampo, una solitudine che permea la società attuale, in cui la vita virtuale si va sempre più sostituendo alla vita reale.
“Pulse”, con il suo pervasivo senso di tragedia imminente in una sorta di permanente presagio, la sensazione di innaturalità dovuta alla prevalenza di piani americani, gli interni quasi sempre fotograficamente virati allo scuro, le luci diffuse in maniera quasi monocromatica, le visioni distorte e le ombre trascinate, le inquadrature gelide, i silenzi corposi strapapti con violenza, ci conduce all’apocalisse finale, riuscendo ad imprimersi dolorosamente nella memoria dello spettatore, quasi avesse realmente visto anch’egli uno dei fantasmi del film, restando lì a macerare.
Concludiamo con le parole di Kiyoshi Kurosawa: «La mia intenzione è quella di mostrare la solitudine e l’alienazione provocate dalla società giapponese contemporanea. Tokyo è una grande città ed è un paradigma perfetto di questa situazione. Recentemente ho avuto modo di viaggiare molto al di fuori del Giappone e mi sono reso conto che questo tipo di solitudine esiste al di fuori del mio Paese. Oggi mi chiedo se si tratti di una condizione umana inevitabile».
Written by Alberto Rossignoli
Fonte
M. Lolletti – M. Pasini, “Storie di fantasmi. Il nuovo cinema horror orientale”, Foschi Editore, Forlì 2011