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Punto di non ritorno (1997)

Creato il 15 dicembre 2010 da Elgraeco @HellGraeco
Punto di non ritorno (1997)

Iniziamo dicendo, se ancora non lo sapete, che detesto Paul Anderson. Niente di personale, ovvio. È un’antipatia pura, che nulla ha a che fare con la sua vita personale, almeno fino a quando non si arriva a parlare di musica.
I suoi gusti musicali mi fanno schifo.
E così, la scelta di far accompagnare i titoli di testa e di coda di questo film da musica techno, non la giudico vincente. Per lo meno per quanto mi riguarda.
Direi anzi che fa cagare. Punto di non ritorno si sarebbe dovuto intitolare, se i traduttori facessero il loro sporco lavoro, ovvero si limitassero a tradurre senza adattare, che ancora non ho capito cosa voglia dire, adattare, Orizzonte degli Eventi (Event Horizon). Un titolo, oltre che un concetto, mutuato dall’astrofisica. L’orizzonte degli eventi si verifica in un buco nero, e può essere esaminato, teoricamente, solo in un senso, ovvero entrandoci. A quel punto, la velocità di fuga per uscirne dovrebbe essere maggiore di quella della luce, di fatto rendendo questo evento secondario, l’uscita, impossibile.
In pratica lì dentro, nel buco nero, finisce tutto. Non trovate che Orizzonte degli Eventi sia di maggior fascino?
Opinabile anche questo, certo. E differenza sottile, per puristi.
Ciò che costituisce fascino indubbio, per me, lo sapete, è lo spazio profondo. Perché, come ho già scritto e ripetuto, viaggiare nello spazio profondo equivale a percorrere i confini dell’animo umano.
Lo spazio è l’animo umano. Insondabile.


Punto di non ritorno (1997)

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La Ragazza del Paginone Centrale

E allora Paul Anderson mi promette tutto questo. E l’idea mi piace. Un’astronave scomparsa e poi riapparsa, e una missione di soccorso da parte di un’astronave più piccola, sette anni dopo; tanto, infatti, l’intervallo di tempo durante il quale, la Event Horizon, è sparita dall’universo conosciuto. Siamo nel 2047 e noi umani siamo fighi.
La Relatività la fa da padrone, ma la fisica teorica ha scoperto che, a patto di riuscire a generare determinate e incredibili quantità di energia, è possibile effettuare il salto. Ovvero, infischiarsene della velocità della luce, limite invalicabile, e spostarsi, semplicemente, da un punto all’altro del cosmo.
Il percorso più breve tra due punti è una linea retta, dice un tizio dell’equipaggio della Lewis and Clarke, la nave addetta al salvataggio della Horizon, al dottor Weir (Sam Neill), ma se noi riusciamo a piegare quella linea a a far combaciare i punti, lo spazio si annulla. Il viaggio, così, si rivela istantaneo. Morpheus, scusate, il Capitano Miller (Laurence Fishburne) resta a bocca aperta, probabilmente perché Weir, per spiegare meglio il concetto, ha bucato il paginone centrale di una rivista erotica e, di conseguenza, l’immagine di una modella strafiga. Ma il succo del discorso è passato ugualmente.

Punto di non ritorno (1997)

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Il Buco Nero

Dicono che sia un film originale, Punto di non ritorno. E che, come ogni altro film, è stato concepito dallo sceneggiatore di turno, Philip Eisner, in seguito a determinati eventi di vita reale, fatti tragici, che l’hanno ispirato.
In realtà, per chi come me ha visto parecchio cinema, è impossibile non ripensare a The Black Hole.
L’analogia, anche se mascherata dalla figaggine del titolo, Orizzonte degli Eventi, è palese. Siamo in entrambi i film in presenza di eventi che scaturiscono, si suppone, dall’aver incontrato un buco nero. Nel film Disney esso, il fenomeno fisico, è ben visibile, in Anderson, questo è uno spettro evocato dal presunto viaggio di ritorno della Event Horizon. Fatto, come abbiamo visto, ritenuto impossibile.
Ma non basta. È altrettanto impossibile non essere assaliti da tutta una serie di deja-vu: omaggi a Alien (1979), la sala comando e relax, la zona pranzo della Lewis and Clarke, lo stesso equipaggio, a 2001: Odissea nello Spazio (1968), il vano computer della Horizon, e, ancora e sempre di più, si ripropone Il Buco Nero, quando la piccola navicella si avvicina a quella enorme, tanto grande da sembrare una città intera, che è intrappolata, chissà come, in orbita, attaccata a Nettuno, stesso pianeta in prossimità del quale, sette anni prima, era scomparsa.

Punto di non ritorno (1997)

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[potrebbe esserci qualche spoiler leggero leggero]

La Luccicanza

Magari qualcuno di voi non l’ha ancora visto questo film, così non voglio spoilerare più del dovuto insistendo sulla trama e sui personaggi particolarmente inconsistenti. Dico solo che Sam Neill si conferma essere il Dott. Hans Reinhardt, innamorato dei suoi studi e della sua creatura, l’atronave, e soprattutto il nucleo che egli stesso ha progettato e che ha reso possibile la flessione dello spazio-tempo: una suggestiva struttura sferica attorno alla quale ruotano incessantemente e in modo sinistro alcuni anelli di metallo, alcune volte in congiunzione.
L’idea alla base era quella di prendere Shining di Kubrick e di trasferirlo nello spazio. La classe di Kubrick non c’è. Nessuna sorpresa. Ma accattivante ed evocativo resta lo spunto.
Neanche di spunto originale si tratta, dato che Star Trek, tanto per cominciare, propone il viaggio interstellare e il superamento dei limiti fisici e soprattutto mentali dell’uomo, quale tema ricorrente, almeno dagli anni Sessanta.
Fatto col quale mi trovo sempre d’accordo è la possibilità, basata su nessuna certezza fisica, badate, che il cosmo sia qualcosa di più di ciò che esso ci rivela, a poco a poco. A quel punto, anche ammettendo di trovarsi su un’astronave che è riuscita a violare lo spazio [teorico] conosciuto, è più che probabile confondersi ed essere vittima di suggestioni religiose.
Proprio come accadeva in Black Hole, proprio come capitava al Dott. Reinhardt che si vede dominare su un poco rassicurante panorama infernale, è più che giusto supporre che l’assunzione di tali consapevolezze totalizzanti, possa per reazione indurre il nostro cervello a rifugiarsi nei reami dell’inconscio, dominati da paure ataviche, da favole raccontate dai nostri antenati attorno ai falò, tramandate per secoli, per cercare un posto sicuro, anche se malvagio, che sopperisca ai nostri limiti mentali.
Questo, a patto di saper gestire l’argomento con mano ferma. Altrimenti, ci si ritrova a dover fare i conti con un equipaggio in preda a raptus di natura sessuale, ai soliti peccati la cui essenza unita all’espiazione si concentra nella carne martoriata delle vittime e degli stessi carnefici, in un tripudio di medioevo cosmico che, per quanto si tenti, non mi sembra ancora essere un giusto connubio.

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