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Qoèlet, donna e vanità

Creato il 08 aprile 2013 da Wsf

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Il libro di Qoèlet, meglio conosciuto come L’Ecclesiaste, il Predicatore, più che dare ai suoi lettori-ascoltatori certezze e consolazione di fronte alla complessità della vita e ai suoi interrogativi, scalza tutte le sicurezze e i luoghi comuni per seminare dubbi, sconcerto, disillusione. Non lascia indifferenti: costringe a pensare, a condividere o a contraddire, ad approvare o a prendere le distanze infastiditi. Obbliga a non essere banali.

Qoèlet, dal participio presente femminile del verbo qahal,  essendo declinato al femminile, fa pensare che l’autore del libro sia una donna e così, il libro di Qoèlet, sarebbe da tradurre il libro della “animatrice” che contesta alla radice i miti maschilisti imperanti nel giudaismo post-esilico. Qualcun altro, invece, parla di più autori, tra i quali anche alcune donne. Ma lasciamo la questione ai filologi e ai critici del testo. Noi non ci meravigliamo della sapienza delle donne e che una donna possa essere maestra di verità. Sappiamo di Diotima, donna dotta di Mantinea , che nel Simposio di Platone interroga Socrate e gli svela la vera natura di Amore.

Qui Qoèlet, maschio o donna che sia, è una sorta di io narrante e osservatore, che ha vissuto, visto,  osservato come vanno le cose nel mondo e in base a questo racconta, consi­glia, giudica e man mano che parla si trasforma, sempre di più in una sorta di voce fuori campo.

Nel libro sette di Qoèlet, però, ci imbattiamo nella seguente frase: “…e ho trovato una cosa piú amara della morte: la donna il cui cuore è lacci e reti, e le cui mani sono catene. Chi è gradito a DIO le sfugge, ma il peccatore sarà preso da lei”.

Detto così, escluderebbe la possibilità di una elaborazione femminile del testo, a meno che nell’azione di camuffamento, nel presentarsi come voce testimoniante di Re Salomone, non fosse inclusa anche l’auto delazione, per sminuire, condannare ogni passione e desiderio e così far brillare il messaggio con cui il testo si apre e si chiude: Havel havalîm…(1,2 e 12,8), normalmente resa con vanità delle vanità, tutto è vanità.

Ma non credo una donna arriverebbe a tanto e non credo gli uomini del tempo avrebbero mai permesso ad una donna di dire che Dio l’avesse prescelta quale testimone di parola divina.

Non ci resta, quindi, che apprezzare il messaggio sulla vanità, così da scoprire che non è la donna da biasimare come tentatrice con mani di catene, ma il desiderio di lei che porta l’uomo a preferirla a Dio, allontanandosi da lui. Questo è vanità, sembra dire Qoèlet. L’amore, la passione, il desiderio che non sta nella legge, nella saggezza, nella luce, nell’ordine del mistero dell’Amore è quello capace di portare gli uomini ad uccidere le donne, a violentarle, a denigrarle e volerle sottomesse per la vanità del possesso.

«Ho raccolto argento e oro – si legge – [...] mi sono fatto dei corifei, uomini e donne e una moltitudine di concubine che sono la deli­zia del genere umano [...] Ho considerato tutte le azioni fatte dalle mie mani e l’impegno profuso, ed ecco: tutto è alito evanescente, inseguimento del vento» (2,8.11)

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Questo senso di evanescenza lo troviamo espresso anche nella poesia “Vanitas! Vanitatum vanitas” di Goethe. Egli afferma di aver fondato la sua causa sul nulla, dopo aver avuto fiducia nell’oro e nella ricchezza, nelle donne, nella ricerca di nuove abitudini e paesi, nella guerra e nel combattere.

In nothing now my trust shall be,
Hurray!
And all the world belongs to me,
Hurray!

Il poeta si rende conto di non essere in grado di offrire una valida giustificazione alle sue pretese “fondative”: bene, male, giusto, sbagliato, tutto è “vano” se privo di giustificazione ultima. I valori vanno in frantumi. Resta un’unica consapevolezza: “tutto è vano” in quanto in-giustificato.

Anche Robert Schumann fu ispirato dalla famosa espressione “Vanitas Vanitatum” del Qoèlet nella creazione della composizione del primo dei 5 Pezzi in Stile Popolare op. 102 per violoncello e pianoforte ed anche il primo testo degli ultimi quattro Lieder – quattro canti seri – (Vier ernste Gesaenge op. 121, del 1896) del grande compositore tedesco Johannes Brahms (1833-1896) è tratto dal Qoèlet:

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    Poiché uomini e bestie hanno identica sorte;
    muoiono queste, come anche lui muore;
    e tutti hanno un identico respiro,
    e niente ha l'uomo più della bestia:
    poiché tutto è vanità.
 


A conclusione del Lieder, il quarto canto recita:
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli
ma non avessi l'Amore,
sarei come un bronzo risonante o come un cembalo tintinnante.
[ ... ]
E lasciassi ardere il mio corpo,
ma senza l'Amore,
[ ... ]

Brahms stesso ha preparato i testi del Vier ernste Gesaenge op.121 traendoli dai passi delle Scritture, realizzando una delle sue opere più sublimi: un ciclo di canti non confessionali di umiltà e di fede. I canti non sono in forma strofica e la musica è severa e sobria, il che vale a renderli ancor più efficaci.

Ed infine ecco la soluzione di Qoèlet: dopo tanto girovagare, trova il vero senso della vita. Non è nel potere, né negli uomini, né in qualcosa che puoi andare a cercare da qualche parte, né tantomeno in qualcosa che ha a che fare con il nostro operato. E’ qualcosa che già abbiamo ma da cui ci allontaniamo: noi stessi, il nostro essere ad immagine e somiglianza. Ogni cosa ha un tempo, ma quello che conta è l’adesso. E l’adesso non richiede preghiere, né oro, né potenza, né essere maschio o femmina, richiede solo consapevolezza. Di essere.

Tutto il resto è solo vanità…


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