Magazine Curiosità

Quaderno di esercizi.

Creato il 24 aprile 2013 da Blogdispiccioli @blogdispiccioli
Quaderno di esercizi.

Il caffè veniva preparato nella stanza delle scope su di un fornellino da campeggio. Gli inverni di una volta erano sempre più lunghi, infiniti, ad ogni racconto si aggiungevano centimetri di neve, gli occhi pieni di uno stupore diverso a seconda di chi si affacciava a guardare il silenzio per le strade. Le gambe della maestra non si staccavano dal termosifone e il piccolo stormo di grembiuli azzurri se ne stava seduto ad ascoltare qualche pagina di geografia, memorizzando confini, fiumi e città. Luoghi che diventavano tesserine, invisibili al di là delle montagne che scomparivano nella nebbia di quasi due stagioni intere. Una noia senza tante distrazioni, obbediente al richiamo e sensibile al giudizio. 

I miei compiti erano pieni di punti interrogativi in rosso per colpa della brutta scrittura. Non si trattava di illegibilità, c'era proprio qualcosa di sgradevole nel mio modo di tracciare le lettere. Pagine e pagine a ricopiare frasi esemplari o parole singole, "la prima dev'essere perfetta come l'ultima"  ma un polso non ha orecchie per un comando tanto stupido. Pagavo l'errore di aver imparato a scrivere presto e di non aver successivamente curato il mio modo di farlo. Anche per i disegni non ero portato, non sapevo ricopiare e non avevo sensibilità per i dettagli. Quando dovevo scrivere, provavo prima sul banco e poi, lentamente, lo passavo sul foglio. Non avevo il bianchetto, il bianchetto lo usavano quelli bravi che non lo sprecavano e ci soffiavano sopra. Erano così bravi che con la matita rifacevano anche le righe del quaderno. 

Mi è tornato in mente un ricordo strano di quelle mattine. Mi rivedo seduto al banco, un banco con ancora il buco del calamaio, con qualche incisione di vecchi compassi, durante un'ultima ora. Il tempo nelle aule di una scuola era una creatura diversa, aveva le fattezze di una bestia subdola difficile da domare. Un serpente che si dilatava e si accorciava opponendosi regolarmente alla volontà di chi guardava il suo sicario: l'orologio. Per velocizzare il passare dei minuti, quella mattina ho fatto una scoperta strana. Senza badare a niente che non fosse la mia noia, ho disegnato una svastica sul retro della copertina di un bellissimo quaderno dove facevo i compiti. Era semplice ed era perfetta, come se l'avessi inventata io in quel momento, tanto mi veniva bene. Non c'era nessuna rivendicazione ideologica dietro a quel gesto, solo l'inconsapevolezza e l'ingenuità di non dare peso a quattro tratti su un pezzo di carta. Ne ho disegnate tantissime, di grandezze diverse, alternando il verso delle linee e curvandone alcune su di un fianco.  

Quando la campanella è suonata, il pensiero era ancora sospeso nel torpore del tedio, e non badavo agli scarabocchi appena messi da parte . "Ti ho visto, domani lo dico alla maestra!" Nel cortile della scuola qualcuno ha sibilato questa frase, una minaccia che ha svelato in un attimo la consistenza del mio essere distratto. La maestra mi avrebbe rimproverato, forse anche punito, ma l'umiliazione più grande era quella con me stesso. A casa mia la guerra era stata raccontata più volte, dell'Olocausto e della Resistenza sapevo tantissime cose e ritenevo di aver assimilato quelle storie e di sentirle mie. Col peso di aver disubbidito così tanto ad un principio non scritto, ho fatto vedere il quaderno ai miei genitori con le lacrime agli occhi, attendendo quello che poi non è successo. 

Non sapevo dare un motivo, singhiozzavo, con le mani aperte avrei voluto dire che era l'unica cosa che sapevo disegnare senza bisogno di badare alle proporzioni, alla distanza tra una lettera e l'altra, all'ordine formale da impartire alle frasi. Questo lo so spiegare ora, così come riesco solo adesso a capire che cosa mi è rimasto di quel giorno. Per sgonfiare il senso di colpa e farmi calmare, c'era bisogno di depotenziare quel marchio, di indebolirlo, quasi a rendergli lo stesso vuoto che me l'aveva fatto disegnare. Mio padre mi ha spiegato, mi ha fatto sedere sulle sue gambe, mi ha detto che era un antico simbolo indiano, che non era stato inventato dai nazisti, ma l'avevano rubato, e che per una parte del mondo quel segno non era il sinonimo della morte, ma rappresentava un sole. 

"Un sole?

"Sì, un sole"

Il quaderno sporcato era aperto sul tavolo, man mano che le parole allontanavano la paura, mia madre mi ha mostrato un gioco. Avrei potuto cancellare quella pagina con un pennarello, oppure coprendola incollando un foglio. Lei, invece, mi ha fatto vedere che le svastiche si potevano chiudere, con poche linee di penna in più, formando quattro quadrati. Dentro quei quadrati avrei dovuto scrivere delle parole di quattro lettere e la sfida era trovarne tante da riuscire a neutralizzare tutte le svastiche e a farle diventare "pane", "sera", "Anna", "uovo", "cane", "erba","pino","aria"... In pochi minuti la pagina era piena di parole, racchiuse da questi piccoli quadrati innocui, e ricordo i sorrisi e di aver provato davvero una grande felicità. Come se avessimo vinto, tutti insieme, lì in quella cucina, per la prima volta.


Alessio MacFlynn




Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :