Quadretti di un tempo (1): il gigante del giardino

Creato il 28 novembre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

di Rita Sanna.

Qual è il tempo dei ricordi?

Forse quello libero da impegni di lavoro, di famiglia, di ricerche affannose d’affetti?

Quello dell’età matura che spinge più verso il passato che verso il futuro?

Ora Lisa non corre più per acchiappare al volo i mezzi che la portavano al lavoro, non calca più l’acceleratore della macchina per arrivare puntale alle riunioni, per sbrigare in fretta le commissioni, per accompagnare e riprendere i figli da scuola.

Senza più impegni, i suoi giorni sono più lenti, come i suoi passi.

C’è tempo per tutto, anche per i ricordi!

È così che Lisa nei momenti in cui viene investita dalla dolce nostalgia del passato, di quello remoto, si rivede bambina e poi adolescente.

Si immerge nella lontana realtà, avida di riassaporarne le voci e i colori, felice di rivivere le sensazioni, le emozioni, le meraviglie.

Attanagliata dai tentacoli dei ricordi, anche di chi non c’è più, ne ripercorre i tempi e gli attimi senza un preciso ordine cronologico.

Stampati nella mente, li rivede come fossero dipinti, in quadretti senza tempo.

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1. Il gigante del giardino

Li ricorda molto bene Lisa: il gigantesco albero di noce, gli alberi di fichi neri, di melagrane tutte spaccate, quel cespuglio di rose bianche che nascondevano la curiosa casetta col tetto di sughero in un angolo, in fondo al giardino.

Tenendosi sempre lontana, si era spesso domandata chi potesse abitarla.

Una tiepida mattina d’inizio primavera, mentre passeggiava lentamente col nonno, ancora convalescente per una brutta malattia, lungo il viale di peri che conduceva alla misteriosa casetta, chiese:

“Chi ci abita là, nonno?”.

Lui rispose che ci abitava Antonio, l’uomo di fatica, quello che stava sempre in giardino a potare le piante, a spaccare la legna, a raccogliere la frutta matura, ad innaffiare gli ortaggi.

Un giorno Lisa lo vide bene in faccia quell’uomo grosso e forzuto che, chino sulla pesante zappa, tracciava lunghi solchi sul terreno sotto le finestre della sua stanzetta. Ne provò un tale spavento da correre come una lepre tra le braccia del nonno.

“Quell’uomo mi fa paura. Mi sembra un gigante pericoloso!” gli disse, ansimante.

“È buono come il pane!” l’assicurò il nonno.

La pioggia insistente aveva riempito quei solchi, spiaccicando le tenere piantine, ma dopo qualche giorno le aveva viste dritte sugli esili gambi.

Era contenta che fossero resuscitate, come era resuscitato, le aveva raccontato il nonno, il Gesù dipinto nel quadro appeso alla parete sopra il suo letto, con un cuore grande e col sangue che sembrava dovesse colarle sulla testa.

Meravigliata che quelle piantine diventassero di giorno in giorno sempre più alte, un giorno decise di osservarle da vicino.

All’improvviso si trovò davanti quell’uomo gigantesco con la barba grigia e con i baffi spinosi…

Indietreggiò di alcuni metri e gli puntò lo sguardo addosso con diffidenza.

Si accorse in quell’istante che aveva un occhio nero e un occhio bianco.

Allungò il collo verso di lui per vederlo meglio.

Aveva proprio un occhio bianco!

“Perché hai quell’occhio così?” gli gridò da lontano.

“Eh… perché quando ero piccolo come te, un bambino mi ha infilato una canna dentro!” rispose lui serio. Poi aggiunse “…guarda che… non devi mai giocare con le canne, capito?” e si allontanò per andare a potare le numerose piante di rose che il nonno aveva scelto da un catalogo coloratissimo e fatte arrivare da chi sa dove.

Confusa e spaventata andò di corsa sulla terrazza dove il nonno, sprofondato in uno sdraio, godeva dei blandi raggi del sole.

“Nonno, tu non devi più farmi il cavalluccio di canna, capito?” gli disse saltandogli sul grembo.

Lui l’avvolse subito con le sue braccia e le chiese:

“Che succede, Lisetta? Perché mi dici questo?”.

Lisa gli riferì ciò che le aveva raccontato e raccomandato l’uomo di fatica.

Il nonno sorridendo bonariamente la rassicurò:  “Va bene. Stai tranquilla! Non ti farò più il cavallucci di canna!” “Poveretto Antonio!” proseguì “…lo sai che vede da un solo occhio? Come Polifemo…”.

“E chi è Polifemo?” gli chiese di rimando Lisa fortemente incuriosita.

“Lo saprai questa sera! Prima di dormire”.

Lisa sbuffò più volte, poi attese rassegnata l’ora di andare a letto.

La sera, dopo il racconto del nonno, si addormentò col fermo proposito che avrebbe chiamato Polifemo l’uomo del giardino, non perché fosse cattivo come quello della leggenda, ma perché aveva solo un occhio.

Oramai non aveva più paura di lui e lo cercava da ogni parte.

Alto e grosso com’era, non era difficile trovarlo nel giardino perché era più alto di molti alberi.

Quando non riusciva a vederlo perché stava chino a raccogliere le prime fragole o a tagliare i cespi dell’insalata, lo chiamava a gran voce:

“Polifemooo, dove seiii?”.

Lui rispondeva con una specie di grugnito, forse risentito di non essere chiamato col suo vero nome.

“Lisetta, perché mi chiami Polifemo? aveva chiesto una volta”.

Impassibile gli aveva risposto “Perché me lo ha detto il nonno!”.

Una colorata e tiepida mattina di quella indimenticabile primavera, mentre giocava insieme con i fratellini a fare le ciambelle e le torte con la terra umida, fu investita da un intenso profumo che proveniva dalle vicine piantine di fave completamente ricoperte da piccoli fiori, candidi come fiocchi di neve.

“Che belli!” esclamò alzandomi di scatto.

Li annusò più volte e, nonostante il profumo le risultasse amaro e sgradevole, cominciò a raccoglierli sino riempirne le tasche del suo grembiulino e quelle degli altri due fratellini.

Così tutti soddisfatti decisero di far rientro a casa per mostrare il “raccolto” alla madre ma, prima ancora di raggiungere le scale, si accorsero d’essere inseguiti da Antonio, che, inferocito, indirizzava contro di loro urla incomprensibili, facendo accorrere il serafico nonno che, sentendo l’acre odore, non tardò a capire la malefatta.

Lisa, allora, non sapeva che dai quei fiori sarebbero venute fuori le tenere favette che il nonno intingeva nel mucchietto di sale sul bordo del piatto!

Il nonno davanti ai tre nipotini, dritti come soldatini in rigoroso silenzio, simulando di levarsi la cinta dai pantaloni, aveva assunto uno sguardo torvo.

Fu in quel momento che il gigante, abbandonando l’aria minacciosa, intervenne strizzando il suo unico occhio:

“Li perdoni! Sono stati di sicuro i più piccoli che non capiscono il danno!”.

Lisa intuì subito perché il gigante aveva fatto l’occhiolino al nonno e chinò la testa incassandola nelle spalle.

Il nonno non fece uso della cinghia, non l’aveva mai fatto, comunque punì i nipotini severamente: nessuno sarebbe sceso in giardino per due giorni!

“Io però devo andare a dire grazie a Polifemo!” azzardò Lisa.

“Non esce nessuno!” sentenziò lui. “Perché, di che cosa devi ringraziare Antonio?” aggiunse subito.

“Non posso dirlo… è un segreto!” rispose Lisa imbronciata.

Furono noiosi e lunghi per lei quei due giorni chiusa in casa, in quella vastissima casa!

Trascorreva ore intere, passando da una stanza all’altra, a guardare da dietro ai vetri, con la speranza di salutare almeno da lontano il gigante buono, ma lui non sollevava mai lo sguardo verso le finestre.

Per due volte, all’imbrunire, l’aveva visto, curvo e stanco, dirigersi verso la sua casetta.

“Chi gli fa da mangiare a Polifemo… e se si ammala, chi lo guarda?” aveva chiesto al nonno prima di addormentarsi.

“È abituato ad arrangiarsi da solo. Dormi! Dormi tranquilla!”.

La mattina seguente si svegliò quando i fratellini avevano già divorato la scodella del latte con i biscotti e le ciambelle.

Lei bevette solo il latte.

“Lisa, perché non fai la zuppetta?” chiese la madre.

“Non ho tanta fame… li mangio più tardi!” rispose, mentre con indifferenza avvolgeva i suoi biscotti con un tovagliolo.

Era giunto finalmente il momento di andare a giocare in giardino, ma tra la colazione, il bagno e le treccine, quotidiana tortura, si era fatto tardi.

Scese saltellante di gioia a cercare il gigante, ma per quanto lo chiamasse a gran voce, non riuscii a trovarlo da nessuna parte.

Si rattristò al pensiero che, offeso, non la volesse più vedere.

Incapace di valutare l’orario e ancora meno l’usanza degli uomini di fatica, non poteva sapere che Antonio fosse solito ritirarsi per il pranzo al rintocco delle campane che annunciavano le dodici in punto.

Col fagottino di biscotti tra le mani, rimase seduta su una larga pietra a guardare da lontano la casetta del gigante.

“Forse sarà dentro! Ma… come farà ad entrarci?” pensò e, spinta dalla curiosità, decise d’andare a verificare.

Dopo aver percorso il lungo filari di peri, ebbe la sensazione di trovarsi davanti all’antro di una vera caverna.

L’intensa luce del sole rendeva ancora più scuro l’interno di quella che un tempo era stata la casa del forno.

Spalancò gli occhi, ma non riuscì a distinguere chi e che cosa ci fosse dentro.

Dalla sommità di un vecchio barile arrugginito il bagliore delle braci del carbone illuminava la bocca enorme di Antonio, che ingollava con un solo boccone un uovo dietro l’altro.

“Polifemo… ci sei?” chiese un poco impaurita, pensando ai poveri compagni di Ulisse.

“Che cosa vuoi, Lisetta?” domandò pulendosi la bocca col dorso della mano.

“Tieni… queste sono i miei biscotti e mie ciambelle. Te li regalo perché hai detto una bugia al nonno!”.

L’uomo non capì o forse fece finta di non capire.

Pronunciò un roco “hum”, come a dire grazie, e le divorò in un amen, tracannando il vino da un vecchio boccale di terracotta.

Lisa girò lo sguardo da una parte all’altra dell’oscuro e profondo ambiente.

Tutto le appariva strano. Si accorse che non c’era un vero letto!

Infatti, su una robusta tavola, sostenuta da quattro robusti pali, poggiava un grosso materasso con tanti buchi dai quali fuoriuscivano ispidi ciuffi di crine e sopra, una vecchia coperta arrotolata fungeva da cuscino.

Sotto quel monumentale letto Lisa riusciva a intravedere un catino largo e profondo con al centro una brocca di ferro smaltato sbocconcellata e di lato un grosso pezzo di sapone dal colore strano, sul grigio, con striature verdi.

Non c’era neanche una credenza, come nella cucina di casa sua.

I tegami e le casseruole, incrostati di nerofumo, erano appesi al muro.

Non esisteva neanche il guardaroba, perché dai robusti chiodi pendevano giacche e logori pantaloni.

Dopo avere osservato tutto con curiosa attenzione, chiese al gigante:

“Ma… non c’è il gabinetto?”.

Infastidito dalla sua eccessiva curiosità:

“È fuori!” tuonò, tanto da costringere due galline, rintanate in un angolo del gigantesco forno, a scappar via spargendo polvere e piume dappertutto.

D’istinto Lisa si coprì il volto con le mani, poi, lentamente allargò le dita e vide nell’angolo abbandonato dalle galline due grosse uova.

“Polifemo, perché le metti là le uova ?” chiese allontanando dal viso le mani.

L’uomo non rispose. Prese le due uova e le avvolse con carta straccia.

“Tieni! Sono uova appena fatte. Vai e portale a casa. E non romperle!”.

Felice di quel regalo, Lisa lo ringraziò e andò subito via lasciandolo sulla soglia.

“Grazie… Polifemo! Torno anche domani!” gli gridò da lontano.

“Polifemo è davvero un gigante buono, ma perché vive là, in quella stanza tutta buia e senza neanche il gabinetto?” aveva chiesto al nonno che, dopo averla cercata in lungo e in largo per il giardino, aveva capito che era andata a disturbare l’infaticabile Antonio proprio all’ora del suo riposo.

“È un uomo povero, senza genitori e senza parenti, non ricorda neanche dove sia nato. Tanti anni fa, scalzo e affamato, ha bussato alla porta per chiedere un tozzo di pane.

Da quel giorno vive là, nella casa dove un tempo si faceva il pane, si riponevano gli attrezzi da lavoro e si conservavano per l’inverno le pere, i meloni, i pomodori appesi alle travi del soffitto. Si occupa dell’orto, del giardino e si accontenta di quel poco che hai visto, ma è felice di non dover più girare per le strade dei paesi a chiedere l’elemosina”.

Lisa rimase per un poco a bocca aperta e, incredula, pensò che il nonno si fosse inventato anche quel racconto.

Da quel giorno si recò spesso a trovare il gigante, portando con sé sempre qualcosa che pensava potesse essergli utile.

Il misero rifugio di Antonio in poco tempo si era arricchito di un piccolo specchio da appendere al muro, di una scodella di ferro smaltato con la figura di un gattino, di due piattini da frutta ormai scompagnati, di un porta-uovo di legno, di un cucchiaio e tre cucchiaini di ottone, ultimi rimasti di un vecchio servizio da tavola, di quattro tovaglioli anch’essi scompagnati e di un pezzo di saponetta profumata.

Lui accoglieva tutte le cianfrusaglie senza ringraziarla, ma contraccambiava sempre con le uova fresche delle sue galline.

Durarono quasi due stagioni le sue visite al “gigante” nell’ora del ritiro dal lavoro.

Quasi tutti i giorni riusciva a prendere di nascosto dalla credenza della cucina un po’ di riso, di zucchero, di ceci, di lenticchie, ne faceva dei pacchetti con la carta di giornale e glieli portava.

Una volta Antonio le aveva anche sorriso e quel giorno Lisa si accorse che, come a lei, anche al “gigante” mancavano i denti davanti!

L’inverno arrivò prematuramente e fu tanto rigido da seppellire per qualche mese tutto il giardino sotto la neve.

Lisa ripuliva di continuo i vetri appannati per poter vedere almeno da lontano la casetta di Polifemo.

Col tetto tutto imbiancato non le sembrava più la casa dell’orco, ma la capanna di Gesù Bambino, quella che tutti gli anni il nonno, quando preparava il Presepe, ricopriva di abbondante farina.

Quell’inverno nessuno aveva portato giù dalla soffitta la grande scatola che conteneva le pecorelle, i pastori, il bue, l’asinello, la Madonna, san Giuseppe e la capanna.

Il nonno si era aggravato e tutti erano silenziosi e tristi.

Anche lei lo ero e la sera pregava inginocchiata di fronte al quadro col Cuore di Gesù perché facesse guarire il nonno, come le aveva raccomandato la mamma, e pregava perché il gigante non morisse anche lui, di freddo.

La sera si addormentava senza più le favole, senza più i racconti che il nonno inventava quando, seduto accanto al suo letto, finiva per addormentarsi prima di lei.

“Il nonno non c’è più!” le avevano detto una tarda mattina mentre giocava con i fratellini su un gigantesco mucchio di mandorle in un angolo di una stanza appositamente adibita a dispensa.

Non pianse.

Non era facile alla sua età capire che la morte separa irrimediabilmente i vivi da chi non c’è più!

Continuò a separare i suoi mucchietti di mandorle con espressione malinconica.

La sera, prima di andare a letto, chiese alla mamma la sciarpa a righe bianche e grigie del nonno. L’avvolse intorno al collo e si addormentò subito, stordita dall’odore del nonno che sapeva di fiori di fave.

La mattina successiva fu sorpresa di vedere Polifemo dentro casa.

Stava dritto come un grosso palo accanto alla porta della camera dove ai piccoli avevano impedito di entrare.

Gli corse incontro e lui, istintivamente, per la prima volta, la sollevò da terra.

“Lo sai che il nonno non c’è più?” gli disse, accoccolandosi tra le sue braccia.

Lui non rispose, ma Lisa ricorda ancora le sue mani incallite attraversare le rugose guance per asciugare le lacrime di un pianto silenzioso.

Col blando sole di primavera tutto ricominciò prepotentemente a rifiorire in quel bellissimo giardino, ma Lisa ricorda che in uno di quei giorni un grosso camion sostava da ore di fronte alla sua palazzina.

Il camionista, aiutato da Polifemo, aveva finito di legare saldamente con robuste funi le reti metalliche, i materassi, un’antica credenza dell’ottocento, un salottino di velluto rosso, le sedie, gli specchi coperti dalle trapunte da letto, ed i grossi bauli contenenti tutta la biancheria, le pentole e i piatti.

Sapeva che stavano traslocando per andare a vivere in città e che la casa del nonno sarebbe stata venduta. Ne soffrì in silenzio.

Salì per ultima sulla stretta cabina del camion dove già sedevano l’uno addossato all’altro la madre e i fratellini.

“Sei ancora giù, Lisetta? Sali subito!” aveva urlato la madre mentre lei sbirciava da una fessura del muro di recinzione per seguire il passo lento del “gigante” , che, dopo aver salutato tutti sollevando in alto il suo robusto braccio, con la testa incassata alle spalle andava verso la casa del forno.

“Perché non è venuto anche Polifemo con noi?”.

“Non ci sarebbe stato!” rispose sbrigativamente la mamma.

“….e allora perché non è partito col babbo in treno?” domandò.

“Lisa, sei sempre quella che ti occupi delle cose che non ti riguardano!”

Da quel giorno si ripromise di fare meno domande!

Non vide e non chiese più del buon “gigante”, ma il tempo non riuscì a cancellare la sua immagine che associava sempre a quella del nonno che l’ aveva sempre coccolata e protetta, che aveva permesso solo a lei di scompigliargli i radi capelli e di fargli le treccine, come alle bambole.

Un giorno Lisa, ormai adulta, per la ricorrenza della festa dei Morti accompagnò la madre al cimitero del paese dove era nata per deporre i fiori sulla tomba dei nonni.

Distrattamente, mentre andava a prendere l’acqua per riempirne le fioriere, inciampò su un rialzo di terra su cui giaceva una modesta croce di legno.

Notò che da uno dei bracci pendeva una sottile lamina di alluminio sulla quale erano incisi rozzamente, forse con un chiodo, un nome ed una semplice lettera: Antonio B.

Colta da un’ improvvisa intuizione, si avvicinò alla madre e le chiese:

“Mamma, ricordi il nome dell’uomo di fatica del nonno?”.

“Figlia mia, sono passati tanti anni… non so… forse Bellinzas…”.

Lisa sollevò la croce, la infilzò nella terra nuda, poi prese tre garofani dalla tomba dei nonni e li poggiò, commossa, su quel misero cumulo che custodiva “il gigante buono” con i ricordi della sua infanzia.

Featured image, dalla Rete.


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