Portai un Cane in ufficio,
abbaiava ma solo per me.
Mi aiutava a controllare il gregge,
che si muoveva disordinato nei corridoi,
indirizzandolo verso un solo obiettivo.
Un giorno fu chiamato in ufficio,
dal capo,
abbaiava, ma lo sentivo solo io.
Quadro.
Sì, il quadro che volevo appendere alla parete,
era ancora appoggiato a terra,
perché non avevo la parete libera,
anzi non avevo la parete,
la finestra sì.
Portai una tazza in ufficio,
che riempivo di té per me.
Mi aiutava a trascorrere le ore,
pomeridiane,
ed evitare di perdersi nel gregge.
Un giorno la prese il capo,
per offrire il té al Cane,
che ringhiava a me,
solo a me.
Non ci badavo,
in fondo era il Cane che avevo portato,
anzi capivo quanto fosse nervoso
perché non sapeva dove sistemare il quadro,
sempre appoggiato a terra.
Portai un amico in ufficio,
per mostrargli il metodo di lavoro.
Argomentò per ore con il Cane,
bevendo dalla mia tazza,
sull’importanza dell’analisi logica
seppur non nominasse mai,
proprio mai,
il complemento partitivo,
ed iniziò ad osservare il quadro,
sempre appoggiato a terra,
simulando con il corpo
una sistemazione che non prevedesse
l’utilizzo di infissione meccanica
nell’involucro edilizio.
Non ebbi più notizie di lui,
ma il Cane che avevo portato in ufficio,
poco dopo, evidenziò una certa zoppia
nella sua camminata quadrupede.
Intanto il capo ululava.
Portai un chiodo in ufficio,
d’acciaio con la testa in ottone,
da mettere nella tazza che avevo portato
quando si beveva il té.
Il Cane lo inghiottì.
Il quadro fu sistemato.