Enigmatico come Murakami, Julian Barnes espone i fatti come in un problema. L’intreccio è costruito come un giallo.
C’è un gruppo di amici composto da Tony, il narratore, Alex, Colin a cui si aggiunge Adrian, il più intelligente e colto di tutti. A un certo punto un loro amico si suicida perché la sua ragazza è rimasta incinta, il che ovviamente li impressiona molto. Poi Tony si mette con Veronica, con la quale ha una relazione un po’ goffa, come può essere quella di un adolescente alle prime armi. Quindi i due si lasciano e il gruppo si perde di vista. Tempo dopo Tony riceve una lettera da Adrian in cui gli dice che si è messo con Veronica. Lui fa l’indifferente, ma poi gli scrive una lettera feroce, rompendo i rapporti con loro. Dopo un po’ Adrian si uccide. Fine della prima parte.
Tony ormai sessantenne, sposato, separato, con una figlia grande, riceve una lettera dalla madre di Veronica che gli lascia in eredità 500 sterline e il diario di Adrian. Veronica però si rifiuta di dargli il diario. Lui cerca in tutti i modi di capire il perché di questa eredità e di riavere il diario, ma brancola nel buio e noi con lui. Ecco alcune domande inevitabili (e spoiler).
Perché la madre lascia i soldi e il diario proprio a lui?
Perché Veronica non glielo dà e si ostina a coprire il mistero?
Perché lei continua a dirgli che non ha capito niente? E’ perché lui crede che il ragazzo di cui lei si occupa sia il figlio di Adrian, mentre invece è figlio della madre di Veronica e di Adrian?
Romanzo filosofico, Il senso di una fine medita sugli inganni del tempo e della memoria. Siamo sicuri che certe cose siano realmente accadute, o forse è solo il modo in cui ce le ricordiamo e ce le raccontiamo?
“Con quale frequenza raccontiamo la storia della nostra vita? Aggiustandola, migliorandola, applicandovi tagli strategici?” scrive Barnes. Da giovani ci inventiamo diversi futuri, da vecchi risistemiamo il passato nostro e quello degli altri. Guardando indietro, ci accorgiamo che la vita ha ridimensionato la percezione del nostro futuro, che abbiamo tradito ideali e aspirazioni, nonché amici a cui avevamo giurato eterna fedeltà.
Vorrei obiettare: ma “tradire” ciò che eravamo non è l’unico modo per crescere ed evolversi? Sì, risponde Barnes, ma bisogna vedere qual è il punto di arrivo perché: “c’è differenza tra addizione e crescita. La mia esistenza si era sviluppata, o solo accumulata?” si chiede ancora Tony.
La vita è la storia che ne abbiamo raccontato e infatti Tony, il protagonista e narratore, scrive una lettera spregevole ma poi ce la nasconde. Non dice niente della lettera, né a se stesso né a noi. La dimentica e la scopriamo solo quando Veronica gliela rimanda e lui ne è scioccato. Si può rimuovere qualcosa fino a questo punto? Come può aver dimenticato una lettera tanto importante?
Su Anobii, un lettore protesta: posso dimenticarmi i papi e gli imperatori romani che un tempo conoscevo a memoria, ma gli episodi dirimenti della mia vita?
Vediamo ora qual è lo sfondo biografico di questa storia.
Il gruppo di amici colti e saccenti esiste davvero ed era composto da alcuni dei migliori scrittori dell’epoca: Martin Amis, Ian McEwan, Salman Rushdie e Julian Barnes.
Occhi azzurri, un gran nasone, un volto simpatico, Barnes si sposa con Pat Kavanagh, potente agente letteraria. Lei assomiglia a Katharine Hepburn, è più grande di lui d’età, più bassa di statura e da lui adorata. Peccato che a un certo punto lei scappi con l’esordiente Jeanette Winterson.
Ma ritorna da lui dopo due anni e riprendono la loro vita come niente fosse.
Nella realtà c’è anche una lettera terribile ed è quella che Julian Barnes scrive nel 1995 al suo amico Martin Amis, dopo che l’altro lascia la sua agente, nonché sua moglie, per un altro agente.
L’amicizia fra il brillante donnaiolo Martin Amis e il timido e gentile Julian Barnes era iniziata negli anni Settanta. Nel 1973 Amis (24 anni) diventa il responsabile letterario del settimanale New Statesman e prende Barnes (28 anni) come vice. I due diventano inseparabili: lavorano insieme, giocano a tennis e a biliardo, scrivono, bevono e frequentano i migliori scrittori del tempo.
L’amicizia dura vent’anni. Nel 1995, Julian scrive a Martin una lettera crudele, augurandogli di finire come Rushdie – condannato a morte da Komeini – e come Bruce Chatwin – morto di AIDS – entrambi passati da Pat Kavanagh all’altro agente, soprannominato “lo sciacallo”. Conclude la lettera con un bel “vaffanculo”.
Oltre a questo “tradimento”, sembra che Barnes non avesse digerito che nel romanzo di Amis L’informazione, ci siano due scrittori di cui uno banale che ha successo (Barnes) e l’altro, tormentato e brillante, che non lo ha (Amis). Ma a ben vedere anche ne’ Il senso di una fine c’è un amico geniale che legge Wittgenstein e non è certo il protagonista, più volte definito come quello che non ha capito niente.
Esiste anche un altro elemento autobiografico importante (vedi Antonio Sgobba) che Barnes ricorda in Nothing to be frightened of.
”Uno dei miei amici, Alex Brilliant, leggeva Wittgenstein a sedici anni e scriveva poesie pulsanti di ambiguità (…) in Inglese aveva voti più alti dei miei, entrò a Cambridge, poi lo persi di vista. Negli anni avevo immaginato la sua carriera di successo nelle professioni liberali”.
Aveva più di cinquant’anni quando scoprì che questa biografia era solo una sua stupida fantasia e che Alex si era ucciso con delle pillole, per colpa di una donna, poco più che ventenne. L’episodio mi colpisce e mi fa riflettere, anche se Barnes non è riuscito a restituirne pienamente il senso nel romanzo, forse perché il suo protagonista è un inetto che non sembra capire un gran che di quello che gli succede e non è mai davvero all’altezza di una competizione con Adrian.
Da molti reputato un capolavoro, Il senso di una fine è considerato un classico pur essendo stato pubblicato nel 2011. Sempre nel 2011 ha vinto il Man Booker Prize, il più importante premio letterario inglese. Però non tutti lo hanno apprezzato e a volte ha avuto un effetto irritante (vedi Christian Raimo).
Tralasciamo che i personaggi siano tutti antipatici, quello che soprattutto irrita è che Barnes parte da lontano per imbastire un intreccio complesso, pieno di dettagli salienti e suspense, e poi alla fine non si chiarisce niente. Ti lascia lì perplesso a chiederti: sarò io che non ho capito?
Per citare Wittgenstein – il filosofo amato da Adrian – spesso quello che non capiamo ci affascina e ci sembra profondo. Non sarà questo il caso?
Perché la madre lascia i soldi e il diario a Tony, non lo sapremo mai. La sfilza di domande che il romanzo suscita resteranno senza risposta. Quello che è in gioco qui è il senso della storia che ci viene raccontata. Un senso che sfugge perché la rivelazione finale non è all’altezza delle sue premesse e della suspense che ha sviluppato.
“Non sarà che Julian Barnes voglia imporci proprio questa frustrazione”? si chiede Nadia Fusini.
Forse. A differenza di un libro giallo, non è detto che la vita alla fine acquisti una sua verità (una rappresentazione perspicua); nella vita non c’è giustizia, né coerenza e spesso manca un’epifania finale. Il senso bisogna conquistarselo e qui, alla fine, non c’è.