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Qualche riflessione sulle traduzioni brutte

Da Silviapare

Qualche riflessione sulle traduzioni brutte

E comunque questa maglietta me la compro

Mi è capitato diverse volte di frequentare quei posti meravigliosi che si chiamano "residenze per artisti", dove gli artisti soggiornano per lavorare ai propri progetti, in genere sponsorizzati da un generoso ente o da un privato che nei paesi civilizzati può scaricare dalla dichiarazione dei redditi le spese sostenute per aiutare la cultura e l'arte. Ma questo è un altro discorso. Il discorso che volevo fare parte dal dialogo con un conoscente che, quando gli ho spiegato cos'era una residenza per artisti, mi ha risposto perplesso: "E perché ci sei andata tu? Una traduttrice non è mica un'artista, no?" Ora, a me non interessa come viene definito il lavoro del traduttore, se arte, artigianato o vattelapesca (la mia risposta infatti è stata "a me interessa solo essere considerata un'artista da chi valuta la mia candidatura a quelle residenze"), e non mi interessa entrare nel merito dell'involontaria maleducazione dell'interlocutore. Però pensavo a come lo stereotipo che vede i traduttori come meri "sostitutori di parole", e quindi come figure perfettamente intercambiabili - stereotipo che genera fenomeni come i loro compensi irrisori e le continue omissioni del loro nome nelle recensioni e perfino nei siti delle case editrici - si accompagna a un incredibile proliferare di traduzioni sbagliate e brutte, di veri e propri sfregi alla lingua provocati da chi è sicuro che basti sapere un po' d'inglese (e un po' d'italiano) per tradurre, non solo per i giornali (date un'occhiata alla rubrica "falsi amici" di Licia Corbolante, tanto per avere qualche esempio), ma anche per le case editrici. Perché l'importante non è se il traduttore sia un artista, un artigiano o un manovale: l'importante è che sia capace. E chi sceglie il traduttore - nei giornali e nelle case editrici - deve essere in grado di sceglierlo in base alle sue capacità, e non solo in base a quanto gli costa.

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