Qualche spunto sulla traduzione dal giapponese

Da Silviapare
Dopo alcuni commenti a questo post e a questo (per i quali ringrazio, fra gli altri, Alice, Lola e Matteo), e anche naturalmente per via del gran parlare che si sta facendo del nuovo libro di Murakami da poco  uscito sul mercato americano, mi sono interessata sempre di più alla questione delle traduzioni dal giapponese, e di un autore come Murakami in particolare. Ne sono uscite riflessioni scollegate, come appunti sparsi che vorrei raccogliere qui, sperando che suscitino qualche altra riflessione.
Forse la prima cosa a incuriosirmi è stata un'intervista rilasciata al New Yorker da uno dei traduttori di Murakami, Jay Rubin, che si concludeva con il consiglio, davvero paradossale da parte di un traduttore professionista, di evitare di leggere libri tradotti. In un'intervista successiva, Rubin, a mio parere per cercare di rimediare alla gaffe, afferma: “I’m not saying that people should stop reading translated works; that’d be bad for world culture. What they should do is learn more languages—especially Americans. We should learn what it’s like to live in another language.”
Da una chiacchierata con Mariko Nagai, scrittrice e traduttrice giapponese, sono emersi altri spunti. Mariko, che insegna scrittura creativa e letteratura giapponese alla Temple University di Tokyo, mi dimostra con un esempio quanto la lontananza della cultura giapponese da quella "occidentale" possa porre notevoli problemi al traduttore. Il romanzo Sasameyuki (細雪) di Junichiro Tanizaki (in italiano Neve sottile, traduzione di O. Ceretti Borsini) pone diversi problemi al traduttore (già a partire dal titolo. Ne parla anche Lawrence Venuti in Gli scandali della traduzione), ma uno forse meno noto è quello che riguarda i "movimenti intestinali" dei protagonisti. In un romanzo dove, secondo gli studenti americani di Mariko, in apparenza "non succede nulla", la descrizione di quanto accade, letteralmente, nelle viscere dei protagonisti assume un'importanza simbolica fondamentale per chi conosce a fondo la cultura e la letteratura giapponese, e sotto l'apparente "nulla" c'è in realtà un intero mondo di sentimenti e passioni.Secondo Mariko, è proprio questa stratificazione, questa complessità che manca nelle opere di Murakami, che scrive, secondo molti giapponesi, "come un occidentale". È forse questa la chiave per comprendere quello che emerge dal commento di Giappone Mon Amour al mio post di ieri: "Ogni volta che parlo con qualcuno (ovviamente giapponese) confermo la mia prima impressione. Murakami e' MOLTO meglio in traduzione che in lingua originale. Prosa piatta, personaggi stereotipati che parlano in un giapponese all'americana."O forse c'entra anche quello che ho aggiunto nel mio commento successivo, ossia il processo di "nobilitazione" di cui parla Antoine Berman in La traduzione e la lettera o l'albergo nella lontananza? (E a proposito del post di ieri, non perdetevi il brano dell'articolo inviatomi da Paolo Merlini, giornalista della Nuova Sardegna).La ricerca continua...

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