-C’erano... un Italiano, uno Svedese, un Inglese e uno Spagnolo: discorsi di calcio giovanile-
♠3*puntata: la disponibilità ed il gruppo.
“A quest’età certe differenze già si vedono... non parlo dei singoli giocatori, ma delle strutture dove li preparano...”, butta lì lo Spagnolo. “Il coinvolgimento è molto importante: a volte la differenza sta lì. Quanto si riesce a “tirar dentro” i ragazzi in un discorso di gruppo, aldilà delle aspirazioni personali, che alla lunga potrebbero non bastare. A quest’età poi, i momenti “di bassa” possono esserci e pure lunghi...”, “In quei momenti, se non hai capito l’importanza del gruppo, del “giocare insieme”, quanti finiscono per perdersi?”, chiude amaro l’altro.
Si parla di squadre di livello medio/alto: ”L’intelligenza del ragazzo deve anche essere valutata sulla base della disponibilità”, osservando “i suoi” correre tra i paletti palla al piede, “Tra un quarto d’ora partitella: voglio cambiare il ruolo a tre di loro...”; il suo collega aggiunge: “Hai voglia di stroncarli? -ride-. Due ragazzi un anno fa se ne sono andati perché gli avevo detto che volevo provarli in un’altra posizione... Uno mi ha mandato il padre, incazzato nero: mi ha aspettato fuori dallo spogliatoio, minaccioso...”.
Il primo si avvicina ai ragazzi, distribuisce le casacchine e torna, con un mezzo sorriso: “A me è andata meglio: lo sai che mi sarà capitato almeno cinque volte di vedermi arrivare le mamme con “l’armamentario di fuori” e... ci siamo capiti, vero?”, sorride un po' amaro.
Ascoltando di “queste pratiche esterne” nessuna sorpresa, certo che “Di solito quelli che hanno genitori particolarmente invadenti, poi in campo “pagano”...”; conferma il collega, “Alcuni si vergognano, i più maturi; altri pensano che il padre sia stato ingiustamente privato del ruolo di C.T. della Nazionale, quindi ti trovi con un ragazzo che in campo segue quello che gli ha detto il papà a casa anziché quello che si è tentato di fargli capire per cinque giorni in settimana”. E pensieroso continua: “Le famiglie hanno un ruolo fondamentale: agli incontri coi genitori si possono spiegare tutti i propositi che si vuole, ma anche lì... rinfresco, buffet, discorsi... applausi, poi anche se non sanno se sarai tu ad allenare il figlio, ti pigliano, ti mettono in un angolo e ti spiegano tutto... Fanno così con tutti... ‘quello giusto lo troverò..., prima o poi’, si diranno... “In tasca, mi sono trovato numeri di telefono, fotografie del ragazzo con il suo profilo calcistico...”... eccezioni certo; intanto in campo i difensori vincono 3-1 la partitella contro gli attaccanti.
“Da noi è capitato di un ragazzo che viveva una situazione assurda: giocava rifinitore, un bel 10, con dei numeri evidenti, lo vedevi... Bene, come è normale provo ad iniziare a fargli discorsi più specifici, partendo col dirgli che, pur valendo anche per altri ruoli, nel suo conta molto il posizionamento; quando riceve la palla; il movimento fra le linee etc. E’ sveglio e capisce, passa alla categoria coi più grandi, e pur essendo bravo, la situazione tattica più complessa, lo fa sparire un po'... Che fai?, gli spieghi che problemi non ce n’è... provi e riprovi, gli parli del ruolo, del doppio lavoro che dovrà fare prima che la palla parta -dove ricevere, sapere dove darla già prima che arrivi sui piedi-. Un sabato andiamo a giocare fuori... urla e strepita contro tutti i compagni... che non gli danno la palla come si deve. Il ragazzo è maturo, non era da lui: alla mezz’ora ha gli occhi fuori dalla testa, è sfatto... lo tolgo, negli spogliatoi lo prendo via e mi dice con due occhi rossi come semafori: «Me l’ha detto mio padre che devo farmi dare il pallone a tutti i costi, che il gioco d’attacco deve passare dai miei piedi...»”.
Da questo si potrebbe essere portati a dire che la famiglia dovrebbe “rimanere fuori”. I casi riportati sono casi limite, e anzi, la maggior parte delle famiglie sono piuttosto consapevoli del lavoro che si svolge presso le strutture sportive. Il livello di rispetto, lo “stare al proprio posto” dei papà -di solito-, più ardimentosi, è determinato più da una specie di ricatto che si ingenera nel rapporto, pur saltuario, con gli allenatori del figlio. “Io sto buono anche per anni -mesi?-, però me lo devi portare a giocare in A...”: questo il ricatto implicito. Come se dipendesse dall'allenatore in tutto e per tutto, non di più dal clima generale in cui il giovane calciatore cresce -se promettente, beninteso-, e può portare a compimento il suo sviluppo sì di giocatore, ma soprattutto quello di persona completa, per ottenere, anche grazie al calcio, una "pulizia interiore”, ancor prima che la realizzazione di un "semplice" professionista.