McMurphy (Jack Nicholson) viene ricoverato in un ospedale psichiatrico dell’Oregon per vagliare la sua salute mentale in seguito alla segnalazione del carcere in cui era sottoposto a reclusione. Da questo momento inizia il percorso che lo porta interagire e ad affezionarsi ai suoi compagni di sventura, degli uomini che manifestano fragilità mentale ma che si affezionano subito al loro nuovo amico, così diverso da loro nel non rispettare le rigide regole imposte dalla temibile e altera infermiera Ratched (Louise Fletcher) e capace di idee geniali come l’improvvisata gita al largo per pescare e godere di un po’di libertà. McMurphy guarda dentro di loro meglio della caporeparto, capisce subito che dentro quei “picchiatelli” battono cuori di uomini che hanno perduto (o che non hanno mai avuto) la capacità di divertirsi e di sentirsi a tutti gli effetti normali. Tutto però precipita proprio in seguito ad uno dei tentativi di McMurphy di ottenere il permesso per vedere una partita di baseball in televisione. Il rifiuto (ingiusto) genera nell’uomo la volontà di opporsi strenuamente alla caporeparto che continua come se nulla fosse i suoi incontri psicologici con i pazienti, riunioni che fanno chiudere ancora di più i degenti e che anzi finiscono per esacerbarne gli animi fino allo scoppio di un finimondo per la negazione di un pacchetto di sigarette. Da lì per McMurphy inizia la vera presa di coscienza di cosa sia un ospedale psichiatrico. Viene sottoposto ad elettroshock e nonostante ciò non si arrende, ma medita di fuggire alla prima occasione utile. Quando questa arriva però non riesce a coglierla e finisce così per essere sottoposto a lobotomia, l’unico modo secondo gli esperti per curare il suo stato di aggressività e indisciplina. Quando però viene riaccompagnato nel suo letto è ormai privo di qualsiasi parvenza di umanità e dignità e così il suo vecchio amico Grande Capo gli dona la possibilità di fuggire per sempre dal suo stato catatonico e da quel carcere crudele.
L’unica parola che mi sento di utilizzare per riassumere questo film è straziante. Inutile dire che l’Oscar come migliore attore al grande Nicholson è quasi scontato, così come quello alla Fletcher, impressionante in quel suo sguardo fisso e glaciale, implacabile e privo di emozioni. Ma tutti coloro che hanno preso parte a questa crudele, drammatica ma realistica descrizione della vita in un ospedale psichiatrico, offrono una prova di altissima scuola. Troviamo un giovanissimo De Vito e un irriconoscibile Christopher Lloyd, ancora lontano dalla fortunata trilogia di Back to the future. Si percepisce uno studio e un’attenzione particolare nella messa in scena di qualcosa di purtroppo molto reale. L’assoluta mancanza di attenzione per le esigenze del malato, la mancanza di rispetto della dignità umana, la crudele capacità della capo reparto di far leva su ciò che maggiormente può ferire il malato (vedi la minaccia di raccontare alla madre di Billy la sua prima esperienza sessuale con una donna). Il personaggio di McMurphy, perfetta copia del suo magistrale interprete, porta una ventata di aria fresca e pulita nelle vite di quei poveri disgraziati che per la prima volta riescono a vedere il mare, si innamorano, si ubriacano, scherzano, ridono, in una terapia priva di agenti chimici e per questo non presa in considerazione dalla comunità scientifica dell’epoca.
Un grande film di denuncia che fa tremare il cuore e tormenta le coscienze. Il finale è bellissimo perché unisce la morte alla rinascita di un altro individuo, finalmente pronto a spiccare il volo verso la libertà.
VOTO 10