Il libro di Sally O’Reilly “Il corpo nell’arte contemporanea” (Einaudi, 2011) vorrebbe essere una riflessione piuttosto libera sullo stato dell’arte contemporanea degli ultimi venti anni. Organizzato tematicamente in 6 capitoli (che potrebbero confluire tutti nella voce “Presenza e rappresentazione del corpo”), le testimonianze femminili (ma anche omosessuali) vi sono preponderanti, perché, secondo l’autrice, le artiste combattono consapevolmente “il feticcio passivo di una femminilità sessualizzata”, usato sia dalla pubblicità che dalla pornografia.
Le immagini del libro (numerose e quasi tutte a colori) dovrebbero illustrare i metodi seguiti dalle artiste per indurre anche l’osservatore alla consapevolezza del corpo (se poi da questa potrà mai scaturire una critica, rimane una questione aperta). Non mancano le opere di Melanie Manchot, Marlene Dumas, Cecily Brown, Rebecca Warren, Ursula Martinez e Marina Abramovic, tra le altre. In tutte risulta un’insistita concentrazione sulle zone erogene, anche se talvolta deformate in senso grottesco o orrido. Dal momento che la O’Reilly cerca di trattare le immagini come un critico oggettivo, si ferma naturalmente alla loro descrizione: il significato sarebbe un problema di interazione tra opera/artista e osservatore. Su questo punto il pensiero psicoanalitico e la fenomenologia esistenzialista ci hanno offerto indubbiamente nuovi strumenti per interpretare il corpo, anche per periodi come il medio evo e il rinascimento. Tuttavia l’autrice dà forse troppo facilmente per scontato la nostra abilità nel distinguere quanto gioca in noi l’istinto e quanto le convenzioni sociali.
Nell’arte contemporanea il corpo (nudo o no), secondo la O’Reilly, non può più essere naturale come lo fu in precedenza, poiché troppe stratificazioni culturali hanno lasciato il loro segno, fino a condurci a parlare di cybercorpo o di corpo post-umano. Sembra, comunque, più plausibile che il corpo, fin dal suo ingresso nell’arte, abbia dovuto necessariamente diventare ‘artificiale’(il “Nudo” di Kenneth Clark ne è un esempio). E’ proprio questa demarcazione tra arte e vita che, assottigliandosi via via dagli anni settanta, divenne alla fine confusa. L’affermazione ‘Tutto è arte’, certo propria a quel periodo di rivolta, nell’ultimo postmoderno sembra funzionare soltanto come etichetta estetizzante.
Eppure il vivere consapevolmente all’interno di una cultura comporterebbe lo sforzo continuo di chiarimento dei suoi presupposti, attraverso distinzioni il più possibile accurate, che nascono dal confronto con altre distinzioni fatte nel passato. Su quest’urgenza intellettuale ed etica ci aspetteremmo più indicazioni dagli storici dell’arte ma anche dai critici il cui ruolo, oggi, non può esaurirsi nel ‘presentare oggettivamente’. Ho il sospetto che l’arte contemporanea sia considerata – come un tempo il teatro, il cabaret o le processioni sacre -, uno spettacolo che deve suscitare emozioni forti. Ma questa volta si tratta di un ‘cabaret globale’, con un eccesso di performances, molta fotografia e un’inflazione di ‘arte relazionale’, all’interno del quale il ruolo dell’ ‘osservatore attivo’ viene ora a confondersi con quello altrettanto indefinibile dell’artista. Il libro della O’Reilly, tuttavia, può condurre a domande fondamentali, proprio per il fatto di averle eluse.
Loretta Vandi
il libro citato si può trovare qui: Il corpo nell’arte contemporanea