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Quali sono le serie tv in onda in quest’autunno 2013? Pt. II: Basic Cable (e affini) #fall13tv

Creato il 05 ottobre 2013 da Atlantidezine

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Secondo appuntamento con la nostra panoramica delle serie televisive in programma per l’autunno 2013. Qualche giorno fa ci siamo soffermati sull’offerta dei  canali “premium cable”, mentre oggi diamo un’occhiata a quelli “basic”, quelli che mandano la pubblicità, non dicono le parolacce, e per i quali il nudo è ancora tabù. Accanto a questi, abbiamo pensato di includere alcune novità in onda sui canali via satellite, e siccome non abbiamo ancora capito quale sia la giusta categorizzazione della tv via internet (premium? basic? broadcast?), ci infiliamo pure quella.


Oggi parliamo di: The Walking Dead (AMC), American Horror Story: Coven, Sons of Anarchy e It’s Always Sunny in Philadelphia (FX e consorelle), Mob City (TNT), White Collar (USA Network), Derek (Netflix), A Young Doctor’s Notebook (Ovation) e Full Circle (Audition).

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The Walking Dead, AMC (quarta stagione, 16 episodi, 13 ottobre)
The Walking Dead ci aveva lasciati all’ingresso dell’ormai familiare, claustrofobica Prigione, all’arrivo di tutti gli impauriti cittadini di Woodbury sopravvissuti all’epico scontro finale che ha concluso la terza stagione, e da lì si riprende. Il titolo della season premiere (“30 Days Without an Accident”) ci informa che da quelle caotiche giornate è trascorso almeno un mese, e che presumibilmente la convivenza tra i nuovi arrivati e lo storico nucleo dei protagonisti non deve essere stata particolarmente problematica, ma sembra anche un tentativo piuttosto esplicito di generare un senso di falsa sicurezza…  La Prigione, simbolo principe del sovvertimento delle convenzioni e dei valori della civiltà contemporanea all’indomani di una zombie apocalypse, ha fornito a Rick Grimes e compagni un riparo più o meno sicuro, ma i trailer e le immagini promozionali lasciano intendere che l’edificio cesserà di essere quella (semi)inespugnabile fortezza in grado di tenere alla larga le orde di walkers e di resistere, fino ad un certo punto, all’assalto di una milizia di psicopatici. Alcuni dei personaggi introdotti durante la scorsa stagione dovrebbero trovare più spazio, ed è atteso l’ingresso di una manciata di nuovi protagonisti, tra i quali l’ex-medico militare Bob Stookey, che andrà a rimpolpare (insieme ai confermati Tyreese, Sasha e all’idolo dei fan Michonne) un cast storicamente sguarnito di attori afroamericani in posizioni rilevanti (e quindi ci auguriamo introduca una figura un pochino più articolata del pur compianto T-Dawg, reso immortale dai memorabili one-liner: “Oh, hell naw!”). Tra la boscaglia si aggira, reduce dal ruolo di antagonista principale, la poco rassicurante figura di Phillip Black, il famigerato Governatore dell’ormai scomparsa idilliaca cittadina di Woodbury, il quale starà senza dubbio covando propositi di vendetta conformi a quella spiccata tendenza al sadismo che lo rende così amabile. Ma la novità principale di questa nuova annata dovrebbe essere l’emergere di una non meglio precisata terza minaccia, che andrà ad affiancare gli zombie e gli umani — come il già citato “Guv’nor” e i suoi scagnozzi — dediti alla competizione piuttosto che alla cooperazione con gli altri sopravvissuti. I tentativi di estorcere agli autori e ai membri del cast maggiori dettagli attraverso i quali cercare di identificare la natura di questa minaccia non hanno avuto molto successo, e ci dobbiamo accontentare di risposte sibilline (“potrebbe essere il pericolo più grande che i nostri eroi dovranno mai affrontare” e “si tratta di un nemico del nostro mondo, ma in quel mondo — quello pieno di zombie e psicopatici — potrebbe essere terrificante”) o supreme prese per i fondelli (“i white walkers”, “i draghi” e “uno sharknado“).
The Walking Dead sarà guidato per l’ennesima volta da un nuovo showrunner (stavolta è il turno di Scott M. Gimple), e proseguirà nella formula adottata lo scorso anno di una stagione lunga suddivisa in due tronconi. Benché abbia pienamente senso da un punto di vista finanziario, l’espediente di allungare il brodo suddividendolo in due mini-stagioni da otto puntate ciascuna non ci ha convinto granché, e il sensibile incremento del numero di episodi, e quindi la possibilità di articolare la storia un pochino oltre gli stilemi classici dello zombie-movie (senza peraltro recuperarne il sottotesto, che sarebbe poi la parte più interessante), non ha portato grandi benefici alla narrazione, mettendo anzi ancor più in evidenza la superficialità dei personaggi. Che siano sei, tredici o sedici episodi, The Walking Dead rimane uno show in grado di intrattenere lo spettatore che non ha voglia di pensare troppo a quello che vede, capace di regalare qualche sussulto ogni qual volta la macchina da presa si avvicina ad un angolo buio, ma che allo stesso tempo tende a diventare noioso proprio a causa della ripetizione di questo schema. Per di più, i personaggi sono ormai ben addestrati a fronteggiare i famelici walkers, e anche la suspense generata dall’incontro con i non-morti tende a scemare. Purtroppo, ogni qual volta l’adrenalina scende sotto i livelli di guardia (ed è una condizione che si sta verificando con frequenza sempre più preoccupante), son dolori, poiché la sceneggiatura non è quasi mai stata in grado di creare delle situazioni per cui valga davvero la pena prendersi a cuore la sorte dei personaggi. Quale investimento emotivo è possibile fare su un manipolo di personaggi dal grilletto facile? Ci basta davvero seguire i fantasmi che popolano la mente di Rick, o seguirlo nel suo vano tentativo di evitare che il figlio Carl cresca avvezzo alla violenza che sembra essere l’unica strategia vincente in questo mondo capovolto? E non crediamo certo che le vicende sentimentali di Glenn e Maggie siano in grado di appassionare seriamente un solo spettatore. Sarebbe fantastico se la nuova leadership creativa avesse il coraggio di dare una sterzata all’aridità narrativa della terza stagione, ma nutriamo seri dubbi sull’effettiva possibilità che un’eventualità del genere si realizzi. E in fondo, perché dovrebbe? La serie ha un successo clamoroso, inanella ascolti record, ed è parte di un redditizio franchise che dall’originale fumetto si è esteso a videogiochi, giochi da tavolo e miniature per collezionisti, e che a breve dovrebbe ulteriormente espandersi con uno spin-off in lavorazione presso la stessa emittente. (Per non parlare dei corsi universitari correlati alla serie, perché why the fuck not?) Insomma, la squadra potrà anche cambiare, a seconda dei personaggi che via via finiranno tra le fauci di un walker di passaggio, ma è ragionevole pensare che AMC voglia sfruttare fino in fondo la sua nuova gallina dalle uova d’oro, e che pertanto lo schema narrativo rimanga invariato.
Prima di ogni nuova stagione, AMC è solita pubblicare sul proprio sito gli episodi di una webserie ideata e diretta dal co-produttore Greg Nicotero. Quest’anno è il turno di “The Oath“, una sorta di breve prequel della serie principale che racconta alcuni eventi accaduti prima del risveglio di Rick dal coma. Nel corso di questi tre episodi, aventi una durata complessiva di circa 25 minuti, “The Oath”, così come i suoi predecessori “Torn Apart” e “Cold Storage”, accenna alle fasi immediatamente successive all’esplosione dell’epidemia (o quello che è!), con alcuni sottili rimandi alla serie vera e propria. I fan non faticheranno a riconoscere i luoghi in cui è ambientata la vicenda che ha per protagonisti Karina, Paul e la dottoressa Gale, e anche il veicolo utilizzato dovrebbe risultare abbastanza familiare (spoiler: è una Hyundai Tucson, la macchina preferita dai nostri eroi. Perché cosa c’è di meglio di una Hyundai per affrontare una zombie apocalypse in tutta sicurezza? Ragazzi, il product placement non conosce limiti). A coloro che non hanno interesse a deviare dalla trama principale, e hanno la necessità di un rapido riassunto delle stagioni precedenti, consigliamo invece il divertente mash-up The Seussing Dead.

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American Horror Story: Coven, FX (terza stagione, 13 episodi, 9 ottobre)
Terza iterazione per questa (talvolta confusionaria, talvolta intrigante) esplorazione dell’enciclopedia horror curata dalla premiata ditta Ryan Murphy/Brad Falchuk. Dopo “haunted house” e “asylum”, il dito degli sceneggiatori si è fermato stavolta sulla parola “witch”, ed ecco quindi che il carrozzone si trasferisce a New Orleans — patria di una lunga tradizione occultista che va da Aleister Crawley alla particolare variante locale dei riti voodoo, nata dalla commistione di cattolicesimo e tradizioni magiche importate dalla diaspora africana per via caraibica — per raccontare la storia di una congrega di streghe, le cui componenti non sono altro che le pronipoti di quelle sfuggite ai famigerati processi di Salem (anche se poi lo sappiamo, nel calderone di una stagione di American Horror Story finisce praticamente di tutto, per cui dubitiamo che ci sia spazio solo per le streghe).
Ad oltre tre secoli di distanza dalle cruente esecuzioni seguite ai processi celebrati nella cittadina del Massachusetts, la vita delle streghe non è per niente facile: le povere fattucchiere si trovano di nuovo nell’occhio del ciclone, e rischiano l’estinzione a causa di una misteriosa minaccia. Per ovviare a questo poco desiderabile epilogo, le giovani e inesperte streghette vengono mandate in una speciale scuola di autodifesa istituita a New Orleans, un istituto che sfoggia il roboante nome di “Miss Robichaux’s Academy for Exceptional Young Ladies” e che veste le proprie studentesse con delle stilosissime uniformi, dove le allieve dovranno imparare a difendersi dai pericoli che le circondano. Le giovani scolarette apprenderanno i principi dell’arte stregonesca sotto lo sguardo severo della carismatica (e favolosamente glamour) Superiora Fiona, la strega più potente in circolazione, la quale, dopo un periodo di ingiustificato disinteresse nei confronti delle colleghe, è decisa a riprendere il controllo della congrega e riallacciare i rapporti con la figlia Cordelia, dalla quale è stata a lungo separata e che nel frattempo è diventata direttrice della scuola. Ovviamente non finisce qui: a complicare il tutto, infatti, sarà il terrificante segreto custodito da Zoe, spedita a frequentare la scuola dopo essere venuta a conoscenza in modo drammatico dei poteri in suo possesso ed aver appreso di poter vantare una discendenza diretta con le sfortunate progenitrici finite sulla graticola nel lontano 1693. Sullo sfondo, inoltre, si combatte lo scontro tra le streghe di Salem e le locali Voodoo Queen, due fazioni stregonesche da sempre impegnate in una violenta faida. La vicenda si costruirà attraverso l’intersezione di molteplici piani temporali, dagli Anni ‘30 dell’Ottocento ai giorni nostri, proseguendo nell’uso di una formula narrativa impiegata con alterne fortune nelle stagioni precedenti (non particolarmente riuscita nella prima stagione, ma di grande efficacia nella seconda, e ci auguriamo che il trend positivo si estenda a questa nuova avventura). Se non abbiamo elementi per avventurarci in ulteriori anticipazioni è a causa dell’estrema reticenza di autori ed attori nel riferire i particolari della nuova stagione, e di una campagna promozionale (ottima, a nostro parere) che per ora non ha fatto uso di veri e propri trailer, ma piuttosto si è affidata ad un gran numero di enigmatici e inquietanti teaser, promo e posters, dai quali è difficile desumere elementi utili a ricostruire la trama, ma che sono efficacissimi nel dare un’idea di quale sarà il “mood” della stagione. Che così, su due piedi, sembra poter rivaleggiare con la precedente in fatto di atmosfere malsane e personaggi grotteschi, anche se, garantiscono gli autori, non andrà ad esplorare anfratti così oscuri come erano quelli custoditi nel lugubre manicomio di Briarcliff.
Il cast, come al solito, è stellare, e dovrebbe garantire ancora una volta un nutrito numero di nominations agli Emmy Awards. Preponderante la presenza femminile, che annovera, accanto alla sempre presente Jessica Lange, tante attrici di ottimo livello, tra graditi ritorni dalle precedenti ambientazioni di American Horror Story (Sarah Paulson, Frances Conroy, Lily Rabe, Taissa Farmiga) e pregevoli nuovi arrivi (Kathy Bates nel ruolo di Delphine LaLaurie e Angela Bassett in quello della voodoo queen Marie Laveau). Tra i co-protagonisti maschietti segnaliamo il ritorno di Evan Peters e di Denis O’Hare, e la new entry Danny Huston (l’ex-”butcher” di Magic City).

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A Young Doctor’s Notebook, Ovation (prima stagione, 4 episodi, 2 ottobre)
Miniserie basata sull’omonima raccolta di racconti autobiografici del celebre romanziere e drammaturgo russo Mikhail Bulgakov. Trasmessa lo scorso autunno da Sky Arts in UK (e la scorsa primavera in Italia da Sky Arte), dopo il grande successo di pubblico e di critica ottenuto in patria approda sugli schermi americani, anche qui in onda su un canale solitamente dedicato all’arte.
Siamo a Mosca, alla metà degli Anni ’30. L’ufficio del dottor Vladimir Borngard (Jon Hamm, meglio noto come Don Draper) viene perquisito dalla polizia, alla ricerca delle prove del reato di cui è accusato (ovvero l’essersi prescritto della morfina). La perquisizione riporta alla luce i diari tenuti in gioventù dal dottore, e la lettura delle sue note è lo stratagemma narrativo per dare avvio al lungo flashback degli eventi che lo videro protagonista quando, appena laureatosi in medicina all’università di Mosca, venne mandato a prendere servizio nell’ambulatorio di Muryevo, un isolato paesino sperduto nella steppa russa. Alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre, il giovane dottore alle prime armi (interpretato Daniel Radcliffe, meglio noto come Harry Potter) si trova a fare le sue prime esperienze sul campo in una gelida e sperduta località, solo di fronte alle proprie incertezze in merito alle proprie capacità professionali e ulteriormente intimidito dall’aperta diffidenza che i collaboratori dell’ambulatorio mostrano nei suoi confronti. Le due infermiere, Pelageya e Anna, e un “feldsher” un po’ imbranato, non fanno nulla per nascondere i pregiudizi che nutrono nei confronti del nuovo arrivato, e apertamente rimpiangono la presenza del predecessore di Vladimir, l’esperto medico Leopold Leopoldovich. Vladimir cerca quindi di ambientarsi in questo nuovo mondo, dove nessuno si fida di lui e le sue competenze sono messe alla prova ogni giorno da pazienti superstiziosi.
Presentato così sembrerebbe un ordinario period drama, magari impreziosito da un cast importante e nobilitato dal riferimento letterario. E invece ordinario non è. L’aspetto più interessante di A Young Doctor’s Notebook è il collegamento tra i due piani temporali distinti in cui si articola il racconto delle vicende del dottore protagonista. Le due linee temporali, il presente e il passato, non sono connesse da un canonico flashback, ma bensì si compenetrano in modo surreale: più che un racconto degli eventi passati si tratta di una ripetizione di questi stessi eventi così come vengono ricostruiti dalla memoria del dottore, e in questi ricordi la sua versione “adulta” si trova ad interagire con il suo io “giovane” (la maggior parte delle volte per rimbrottarlo e schernirlo per la propria inettitudine e le continue incertezze). L’avrete già notato: come è possibile che Jon Hamm e Daniel Radcliffe impersonino lo stesso individuo, seppure in momenti diversi della sua esistenza? Tra i due non sussiste nessuna somiglianza che possa lasciar pensare all’uno come alla versione adulta dell’altro, e il trucco non interviene minimamente per colmare la distanza (e neppure la significativa differenza di altezza tra i due!). Ci si accorge presto, tuttavia, di come la diversità nell’aspetto fisico dei due dottori non sia assolutamente un fattore rilevante: al contrario, l’intera narrazione assume il valore di una riflessione sulla memoria, e su come essa non abbia affatto le caratteristiche di oggettività (quasi “filmica”) che le vengono ingenuamente e inconsciamente attribuite, ma sia invece una riproposizione totalmente soggettiva del passato. I ricordi del dottore sono continuamente trasfigurati dalla presenza in essi del suo io attuale, a rimarcare come la pretesa di un oggettiva registrazione dei fatti sia un illusione, e di come l’atto del ricordare consista piuttosto in un’attiva ricostruzione operata nel presente, suscettibile di modifiche e aggiustamenti legati al variare degli stati emotivi e cognitivi nel momento in cui il passato viene recuperato.
Oltretutto, non lasciatevi ingannare dalla categorizzazione “drama”: tanta è l’ironia (spesso caustica, e che sovente tracima nel sarcasmo), abbondante lo humor nero, e non mancano momenti di vera e propria slapstick comedy, in misura tale da alleggerire con toni farseschi le ambientazioni cupe e gli eventi talvolta tragici e macabri di cui si narra.

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Mob City, TNT (prima stagione, 6  episodi, 4 dicembre)
Ad oltre un anno dall’annuncio della messa in produzione, e dopo aver cambiato una girandola di titoli, finalmente approda sui nostri schermi il noir creato e in parte diretto da Frank Darabont, noto ai più per essere stato tra i creatori dell’adattamento tv di The Walking Dead (che per la serie in oggetto è probabilmente irrilevante, ma ve lo diciamo lo stesso, visto che ne abbiamo parlato un paio di paragrafi più su).
Siamo a Los Angeles, nel secondo dopoguerra, in una città in cui il glamour, i lustrini e i luccichii legati alla presenza dell’industria cinematografica e dei suoi divi contrastano (o si intersecano) con la brutale realtà criminale delle gang mafiose decise a fare della metropoli californiana il proprio quartier generale sulla costa Ovest. Il Dipartimento di Polizia della città (LAPD) è notoriamente corrotto e connivente con la malavita, fino a quando il leggendario capitano William Parker non ne prenderà il controllo e inizierà la sua crociata contro il crimine. Una delle misure adottate da Parker è la creazione di un pool di agenti antimafia capeggiato dal detective Hal Morrison (e del quale entrerà a far parte uno dei protagonisti della storia, l’ex-marine Joe Teague), il cui compito è quello di dare la caccia ai famigerati boss Bugsy Siegel e Mickey Cohen. Altri ex-militari che, al contrario di Teague, hanno trovato una redditizia sistemazione nei ranghi della mafia (come Ned Stax, diventato avvocato dei boss), politici che giurano di voler fare piazza pulita del sottobosco criminale che infesta la città (come il sindaco Fletcher Bowron) e le immancabili, sensuali femme fatale che animano i night club della meteropoli californiana (come Anya e Jasmine) sono le figure — invero abbastanza classiche, visto il genere — che completano il quadro di questo violento crime drama.
L’ambientazione è tanto fascinosa quanto non originale (alzi la mano chi non ha immediatamente pensato a Ellroy?? A occhio e croce dovreste averla tirata su tutti) ma i prodotti di genere ci piacciono, l’attitudine hard-boiled ci piace ancor di più, e i cliché non ci disturbano quando di essi se ne fa un uso sapiente. Speriamo sia questo il caso, e ne derivi un poliziesco all’altezza dei modelli da cui pare trarre ispirazione.

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Sons of Anarchy, FX (sesta stagione, 13 episodi, 10 settembre)
Tara in prigione, Clay in prigione, Otto sempre in prigione, ridotto ad un moncherino di uomo e costretto a subire le più crudeli umiliazioni e torture. SAMCRO in difficoltà, tra possibili addii (Bobby lascierà il club per rifondare i “Nomad”?) e personaggi emotivamente segnati dagli eventi (Tiggy). La presenza minacciosa di Lee Toric, un ambiguo ex-U.S. Marshal deciso a vendicare la sorella (brutalmente uccisa da Otto) facendo ricorso agli agganci coltivati durante la sua precedente occupazione, e che non esita a ricorrere all’illegalità pur di raggiungere il suo scopo. Gli irlandesi che ancora legano i Sons al traffico d’armi, e la relazione pericolosa intrattenuta dal club con la gang di Oakland guidata dall’ambizioso August Marks. Tante le gatte da pelare per il biondo Jax Teller, a parole sempre motivato nella sua missione di redenzione del suo club dalla spirale di violenza in cui la leadership di Clay l’ha condotto, ma nei fatti sempre più invischiato e sempre più a suo agio in questa stessa violenza. Ma, imperterrito, Jax continua a scrivere lunghe, noiosissime lettere piene di retorica “one percenter” ai propri figli, e non sembra aver ancora realizzato appieno quanto sia più figo il ruolo di leader di una banda di motociclisti fuorilegge rispetto alla tanto agognata occupazione di papà in una famiglia modello “Mulino Bianco”.
Questa sesta stagione potrebbe (dovrebbe?) essere il penultimo capitolo della saga dei motociclisti californiani, e immaginiamo non si discosti di un millimetro dalle precedenti. Un filo più pessimista che in passato, magari, ma Sons Of Anarchy resta fondamentalmente una soap opera con tante sparatorie e un po’ di scazzottate, e per quanto ci riguarda è al suo meglio quando fila via rapida e violenta (ma sostanzialmente indolore, visto l’investimento emotivo nullo nei confronti dei personaggi), assecondando le visioni pìu truculente del suo creatore Kurt Sutter. Al contrario, è decisamente difficile da digerire quando si intestardisce su questioni sentimentali e/o esistenziali. Non lo neghiamo, Sons Of Anarchy ci ha un po’ stancato: la passata stagione ha parzialmente corretto una rotta narrativa che non sembrava per niente positiva, ma dovrebbe esserci un limite di legge al numero di volte in cui uno sceneggiatore può adoperare lo schema “SAMCRO in un angolo e Jax ad inventarsi qualcosa per garantire la sopravvivenza sua e del club”. E poi, andiamo, quanti sono i pretesti improbabili che ancora possono essere utilizzati per risparmiare a Clay Morrow una fine che appare inevitabile da un paio di stagioni? Per quanto si possa apprezzare Ron Pearlman, desideriamo ardentemente che il suo personaggio sparisca il più presto possibile. Purtroppo, siamo realisti: saremmo i primi ad essere felici qualora la nostra previsione venisse smentita, ma temiamo che difficilmente la dipartita di Clay si verificherà in questa stagione.
Al di là dell’opinione tendenzialmente negativa sull’evoluzione della serie, dobbiamo riconoscere che il primo episodio della nuova stagione non è affatto male: limita i toni melodrammatici e orchestra una sapiente miscela tra esplosioni di violenza inaudita (tra le quali una scena finale che va a mettere il dito in una delle piaghe purulente dell’America contemporanea, e che come tale ha suscitato notevoli — e come al solito mal dirette — polemiche) e la necessità di tempi riflessivi utili a gettare le basi della stagione, che sarebbe poi il naturale compito di un episodio introduttivo. La chiave scelta per unire questi due aspetti si rivela sorprendentemente felice, e l’inesorabile discesa dei Sons nel vortice della violenza viene immerso in una straniante atmosfera di calma ineluttabilità. Jax, ovviamente, ripete ai quattro venti di voler remare controcorrente per tirare fuori i Sons da questo vortice, ma la sensazione è che tutto e tutti finiranno per esserne risucchiati. Quantomeno sarebbe un bell’epilogo.

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Derek, Netflix (prima stagione, 7 episodi, 12 settembre)
La proposta di Netflix per l’Autunno è in realtà un prodotto d’importazione dalla tv inglese, e nemmeno tanto recente: originariamente commissionata da Channel 4, la serie è andata in onda sugli schermi dell’emittente britannica durante l’inverno del 2012. Si tratta dell’altro side-project del duo comico Stephen Merchant/Ricky Gervais a cui avevamo accennato nella presentazione (poco entusiasta) di Hello Ladies. A differenza di Merchant, Ricky Gervais, che dei due è quello che, con i suoi progetti solisti, ha raccolto i maggiori successi, ha curato tutti, ma proprio tutti, gli aspetti della sua serie: ne è infatti autore, regista e soprattutto interprete principale, nel ruolo del protagonista che dà il titolo alla serie, Derek Noakes.
Derek è un eccentrico cinquantenne impiegato presso la Broad Hill Retirement Home, una casa di riposo in cui svolge il suo lavoro di assistenza agli anziani con dedizione assoluta, ed è pertanto adorato dagli inquilini residenti presso la struttura. Tutti, in realtà, adorano Derek, dagli stravaganti colleghi Dougie e Kev alla manager Hannah, e tutti gli riconoscono due qualità di cui dispone in quantità industriali: l’altruismo e la bontà d’animo. Se non siete ancora nauseati dall’eccesso di sdolcinatezza, aggiungeremo anche che la serie è realizzata secondo lo schema del mockumentary (tanto per non perdere di vista The Office), e, con il pretesto di seguire una troupe fittizia interessata al funzionamento della casa di riposo, racconta la relazione di Derek con i pazienti e con i colleghi, i quali sono perennemente impegnati a fronteggiare le croniche difficoltà economiche in cui versa la residenza e i continui tagli al budget della stessa.
Cosa ci sia di comico in tutto ciò stentiamo a immaginarlo, ed in effetti il trailer non ci ha strappato neanche mezzo sorriso. Gervais sostiene di aver voluto realizzare uno show in cui a farla da padrone sono le persone ordinarie, le persone buone e gentili che abitano ai margini della società e la cui positività viene normalmente disconosciuta. Non devono essere stati dello stesso avviso i critici inglesi, i quali, a partire dalla messa in onda del pilot, hanno accusato lo show di essere imperniato sulla ridicolizzazione di un individuo affetto da disabilità mentale, e di sfruttrare a fini comici la patologia (e di propagandare pertanto un’attitudine discriminatoria nei confronti di coloro che ne sono affetti). L’attore ha rispedito al mittente le accuse, precisando che Derek non è affetto da alcuna disabilità cognitiva, e che il suo intento è invece quello di ironizzare sulla percezione diffusa che la società ha degli individui relegati ai margini della stessa, i nerd, gli stravaganti, i tipi “strani” in generale. Perché, ripete ancora una volta, tutte queste persone, ignorate dai più, costituiscano la parte migliore delle nostre comunità. Bene, a costo di passare per cinici senza cuore, una serie del genere non la guarderemo mai. Addio, Derek.

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White Collar, USA Network (quinta stagione, 13 episodi, 17 ottobre)
Il patinato procedurale che narra le avventure della strana collaborazione tra il poliziotto buono Peter Burke e il fascinoso falsario Neal Caffrey è probabilmente l’unica produzione originale di USA Network degna di nota (diciamo “probabilmente” perché quest’estate abbiamo ignorato Graceland, per cui per ora rimandiamo il giudizio assoluto). La quarta stagione si è chiusa con un cliffhanger non da poco: l’agente dell’FBI Peter Burke è accusato dell’omicidio del Senatore Pratt, il quale in realtà è stato ucciso dal James (il padre di Neal) utilizzando l’arma d’ordinanza dello stesso Peter. Sarà dunque compito del brillante ex-galeotto Neal, in virtù dell’affetto e della reciproca fiducia che ormai lo lega a Peter, tentare di scagionare l’incolpevole agente dell’FBI. Ma per fare ciò, Neal dovrà evidentemente compiere una scelta difficile, poiché la salvezza di colui che ha assunto il ruolo di figura paterna sembra avere un prezzo piuttosto alto: sacrificare la relazione con il suo vero padre. Tentennerà, il buon Neal?

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Full Circle, Audience (prima stagione, 10 episodi, 9 ottobre)
Undici personaggi inconsapevolmente interrelati gli uni agli altri sono i protagonisti di uno show la cui struttura è quantomeno anomala. Ogni episodio, infatti, presenta due di questi personaggi impegnati in una conversazione imperniata su complicate questioni sentimentali mentre siedono ad uno dei tavoli del ristorante Ellipsis. Uno dei due partecipanti all’incontro sarà tra i protagonisti dell’episodio successivo, che non si limiterà ad introdurrà solo un nuovo interlocutore (e presumibilmente le sue complicate questioni sentimentali), ma che soprattutto offrirà una inaspettata chiave di lettura delle vicende raccontate nell’episodio precedente. Lo schema di queste conversazioni  interconnesse procede fino alla… chiusura del cerchio, per l’appunto, nel quale presumibilmente ci sarà la rivelazione finale sul senso di tutte queste ingarbugliate relazioni.
Il formato invita a pensare ad una narrazione dai ritmi quasi teatrali (e l’autore, Neil LaBute, è in effetti un drammaturgo), ma il trailer lascia intravedere molto poco, e i materiali promozionali sono alquanto avari di informazioni. Rimandiamo alla visione del pilot le considerazioni sulla riuscita o meno dell’esperimento.

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It’s Always Sunny in Philadelphia, FXX (nona stagione, 13 episodi, 4 settembre)
Serie storica del portfolio di FX, da quest’anno traslocata sulla neonata rete consorella FXX, il cui compito è appunto quello di ospitare le commedie. Uno degli episodi della stagione, che quest’anno taglierà il traguardo dei 100 episodi, è a cura degli autori di Game of Thrones, D.B. Weiss e David Benioff. Se questo implicherà la morte cruenta di uno dei protagonisti, e il contorno di scene di nudo totalmente ininfluenti ai fini della trama, lo ignoriamo. In realtà, la presenza di Weiss e Benioff in qualità di guest writers è praticamente tutto ciò che sappiamo a proposito di questa serie, poiché nonostante si tratti di una sit-com di lungo corso, spesso elogiata dalla critica e capace di raccogliere ampi consensi di pubblico, non ci è mai capitato di seguirla. Otto stagioni da recuperare non sono uno scherzo!


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