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I Quanah Parker nacquero in provincia di Venezia agli inizi degli anni Ottanta, ma – ahimé – l'autobus era già passato e quello successivo sarebbe transitato ben più tardi. Una notevole prog band, non solo preparata tecnicamente, ma dotata anche di un compositore/tastierista di notevole talento (Riccardo Scivales), però, assurta alle cronache locali quando i mostri sacri si erano già dinosaurizzati, mentre il neoprog era roba nemmeno in embrione. Una sorte simile capitò agli umbri de L'Estate di San Martino. Nel 2005, riemersa una certa passione per il genere, il gruppo si riforma su iniziativa di Scivales che, intorno a lui, compatta un ensemble di abili musicisti, pronti a mettere nero su bianco un carnet di brani, nati dal 1981 ad oggi. Quanah Parker è l'ideale antologia di un percorso ragionato che, ancora oggi, è in grado di offrire pagine musicali di alto livello e con intuizioni melodico-armoniche di “scuola”, pur senza cadere in un manierismo ad effetto. Oltre al keyboard wizard Scivales, la chitarra eclettica di Giovanni Pirrotta (un solo più bello dell'altro, ma sulla fanmsa isola deserta porterei con me quello di After the rain), la voce di Betty Montino (timbrica limpida, un po' alla Kate Bush, per intenderci), il basso di Giuseppe Di Stefano (che si produce in alcuni pregevoli assoli) e la batteria precisa di Paolo Ongaro. Lo stile dei Quanah Parker si configura nell'ottica “fine anni Settanta/primi anni Ottanta” dei Genesis pre-Duke (Quanah Parker e Asleep) e degli Yes dramatici (No time for fears, Sailor Song e The garden awakes) con qualche ciclo di metabolizzazione non dissimile ai coevi Marillion (After the rain). Non mancano varianti fusion cameleggianti (Flight), estratti di bossanova (Silly fairy tales), una vena classica tra il pianismo del Banco e il vocalismo floydiano di Atom Heart Mother (l'opener Chant of the sea-horse), calchi emersoniani (il solo di organo in The limits of the sky) e aperture alla ballad mainstream (People in sorrow). Dall'originale registrato nel 1984 con la formazione degli esordi (Shenn menn), invece, emerge un'insospettabile vena canterburyana che andrebbe recuperata. Un prog tradizionale, “storico” ma che non sa di muffa; anzi, il merito dei Quanah Parker è proprio quello di sapere realizzare una sintesi tra un patrimonio di valori musicali “antichi” però con i colori vivaci di un sound senza tempo, quindi – se proprio vogliamo – pure attuale. © Riccardo Storti
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