Quando c’era Berlinguer, c’ero io che frequentavo le scuole elementari, c’era Claudia che mi piaceva un sacco e sul diario aveva scritto W PCI. C’era mamma che quel giorno di fine maggio disse a nonna “hai sentito, hanno vinto i comunisti”, ricordo l’inquietudine nella voce, ma ero convinto che Novelli non poteva essere così male, somigliava a zio Piero che mi faceva sempre ridere. Quando c’era Berlinguer c’erano i cortei per le vie di Torino, gli slogan scanditi a pieni polmoni da studenti e operai, i passi tonanti sul pavé, e sempre mamma a spiegarmi che avremmo aspettato l’autobus a una fermata più lontana. Quando c’era Berlinguer ci fu anche quella mattina di metà marzo in cui l’insegnante di matematica delle medie ci fece uscire da scuola un’ora prima senza darci spiegazioni, e solo a casa seppi dell’agguato a Moro. E c’era Berlinguer nei discorsi di Sandra sull’autobus che ci riportava a casa dalla quarta ginnasio, il padre in cassa integrazione, la madre licenziata dal lavoro, la politica che cominciava confusamente a mischiarsi con la nostra adolescenza. C’era Berlinguer quando votai per la prima volta, ma incapace di raggiungere un compromesso storico personale con le mie radici cattoliche lasciai bianca la scheda. E Berlinguer ci fu un’ultima volta durante un pomeriggio piovoso d’inizio giugno, la mente già rivolta all’esame di maturità, quando Mauro mi riferì che aveva avuto un malore durante un comizio a Padova. Soltanto dopo la sua scomparsa compresi che, in tutti quegli anni, Berlinguer aveva incarnato un ideale di coerenza tra pensiero e azione che, ancora oggi, tento di trovare nelle persone intorno a me, al di là del credo professato, delle ideologie.
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