Quando c’era Berlinguer, Rai 3, ore 21,05.
Un documentario di Walter Veltroni. Interventi di Giorgio Napolitano, Richard Gardner, Alberto Menichelli (capo scorta), Emanuele Macaluso, Pietro Ingrao, Alberto Franceschini, Eugenio Scalfari, Bianca Berlinguer, Lorenzo Cherubini.
Ma Walter Veltroni regista come se la cava? Abbastanza bene, ecco. Filmicamente parlando, questo è un documentario senza frilli e rischiose innovazioni, dalla struttura solidamente tradizionale, voce narrante fuori campo, testimoni che intervengono classicamente inquadrati a mezzobusto, molto materiale d’archivio, com’è naturale, qualche timidissima ripresa ex novo (come quella nel carcere in cui finì dopo una manifestazione operaia il ragazzo Berlinguer). Con apertura ovviamente dedicata ai funerali di B., milioni di persone da ogni dove italiano, e non solo militanti, i più imponenti funerali di un leader comunista insieme a quelli di Togliatti. Con parecchi nomi e volti del cinema a vegliare il feretro e/o a partecipare al cordoglio, si vedono Fellini, Antonioni, Francesco Maselli, Ettore Scola, Luigi Magni, Carlo Lizzani, e, m’è parso, anche Monica Vitti. Che è un passaggio che il cinefilo Veltroni non poteva omettere. C’è poco però sul Berlinguer da giovane, pochissimo sulla stagione dentro il partito prima che diventasse segretario, non si sbandierano retroscena, non si va a scavare, non si vanno a scovare frammenti inediti di biografia, privati o politici che siano. Quel che il fim ci mostra è il Berlinguer-icona che conoscevamo già, il Berlinguer per come ci è apparso, il leader che portò negli anni Settanta il partito al suo massimo storico elettorale (oltre il 35 per cento) e dentro le istituzioni, il Berlinguer che rappresentò la faccia buona e benevola e mediaticamente vincente di un comunismo ancora temuto da una parte dell’Italia. Il Berlinguer dell’eurocomunismo che prende le distanze dall’Unione Sovietica ma non tronca mai i legami e i cordoni ombelicali, che si fa perno di un eurocomunismo costruito sull’asse Roma-Parigi-Madrid con Santiago Carrillo e Georges Marchais (Marchais!) e destinato però a dissolversi. Il Berlinguer, of course, del compromesso storico, che porta il Pci al governo, un governo presieduto dall’immarcescibile Andreotti uomo di tutte le stagioni. Poi, bruscamente, la scomparsa, la morte, dopo giornate faticosissime di comizi e incontri prima a Genova poi a Padova. Sì, sapevamo già, e il film illustra correttemante, ri-racconta degnissimamente, ma senza aggiungere niente, o molto poco. L’unica, almeno per me, rivelazione è quando si rievoca il probabile, anche se non certo, attentato contro di lui durante una sua visita in Bulgaria, allorché la macchina su cui viaggiava fu spinta fuori strada e si fermò per miracolo sull’orlo di un dirupo. Morì uno dei passeggeri, Berlinguer non si fece nulla. Un complotto sovietico contro di lui, la punizione per le critiche al socialismo realizzato in terra di Russia? Al di là di questo che a me è suonato come una notizia, Veltroni si mantiene su un ritratto e una ricostruzione dei fatti abbastanza prevedibili. Non si azzarda una revisione-riconsiderazione storica della stagione berlingueriana, figuriamoci una critica, nemmeno una cauta presa di distanza. Il punto di vista di Quando c’era Berlinguer è quello ampiamente consolidato, e risaputo, della vulgata e anche del mito che si son addensati intorno alla sua figura. Non ci si chiede, per dire, come mai un partito comunista giunto alla sua massima potenza elettorale non seppe, o non riuscì, a farsi vera forza riformatrice di questa Italia, non ci si chiede nemmeno perché Berlinguer non avesse mai rotto radicalmente con Mosca, o perché non fece del Pci un partito occidentalizzato con tanto di propria Bad Godesberg. Le domande restano senza risposta. In fondo – è la mia convinzione – la più radicale innovazione politica di Berlinguer fu se stesso. Lui, con quel sorrise mite, con quella faccia perbene, con quella fragilità forte e determinata, lasciò intravedere – fisicamente, fisiognomicamente, corporalmente – ciò che il partito comunista sarebbe potuto diventare, ma non riuscì mai ad essere davvero. Son dell’idea che molti di quei voti che portarono al trionfo elettorale del partito fossero per lui, solo per lui, Berlinguer Enrico, per quella faccia meravigliosamente onesta e malinconica. Questo è quanto resta anche del film. E son belle e giuste le parole di Lorenzo Cherubini/Jovanotti: “Era un italiano come non ce ne sono più, con quelle ossa piccole, che sembrava sempre ballare dentro vestiti troppo grandi”. Sì, la faccia di un’Italia ormai remota, travolta da quella del tronismo e dell’arroganza. Anche le parole, i discorsi della politica eran diversi. Berlinguer, e come lui gli altri leader, parlava di valori, di ideali, faceva appello al senso di appartenza, al côté identitario dei propri militanti e elettori. Oggi tutto questo è scomparso dalla narrativa politico, rimpiazzato dai problemi dell’economia, dello sviluppo, della decrescita, della disoccupazione. Dei costi della politica. Dei tagli. Oggi prevale la forza ineluttabile delle cose, allora le cose stavano in seconda fila, esendo la prima occupata dall’ideologia. Tra gli intervistati compare il brigatista Alberto Franceschini, e stavolta ci può anche stare, mica come il Giovanni Senzani di Sangue di Pippo Delbono. Il quale Franceschini conferma – lo si sapeva, ma è importante che lo dica lui – come il rapimento Moro avesse per obiettivo quello di impedire il compromesso storico.