Scampati allo sterminio grazie a un futuro Papa e al coraggio di una famiglia e di un medico di TodiDurante la razzia del 16 ottobre 1943 — ricorda Alberto — fu catturata l’intera famiglia di mia madre. Furono deportati tutti: nonni, zii, cugini. Erano sedici e non tornò nessuno. Il primo rifugio furono le Ville Pontificie di Castel Gandolfo, grazie a monsignor Montini, sostituto della segreteria di Stato. Che provvide anche ai documenti falsi.
di Gaetano ValliniNon è mai troppo tardi per un grazie. E così, dopo oltre settant’anni, pur con il rammarico di non averlo fatto prima e con lui personalmente, Alberto Terracina è riuscito a ritrovare e a incontrare nei giorni scorsi due nipoti di quel medico di Todi, dove i sui genitori si erano rifugiati, che nel 1944 non li denunciò ai nazisti dopo avere scoperto che erano ebrei. Li ha abbracciati e ringraziati per il coraggio di quel loro parente, il dottor Paolo Orsini, un uomo che scelse di non compromettersi con il male. Così come fecero, anch’essi a rischio della vita, i componenti della famiglia Marri, che accolsero in casa quegli sfollati, come attestato dai documenti, ma che ben presto scoprirono la loro vera identità continuando comunque a proteggerli. «Con loro però siamo sempre rimasti in contatto» precisa Terracina. È una storia come tante, di persone comuni che malgrado i pericoli non esitarono a offrire aiuto alle vittime innocenti della follia nazifascista, ma che è rimasta a lungo celata, conosciuta da pochi, come molte altre simili. Perché chi compiva quei gesti era consapevole di fare semplicemente la cosa giusta, nulla di eclatante di cui vantarsi. Tuttavia Alberto Terracina, che oggi ha 74 anni, due figli e cinque nipoti, la storia della sua famiglia vuole raccontarla a un pubblico più ampio — in passato è stato ospite di alcune scuole — perché emblematica di quella silenziosa catena di soccorso che nel nascondimento significò la salvezza di migliaia di ebrei. Una storia che tra l’altro vede fra i protagonisti anche il futuro Papa Paolo vi. «Il 16 ottobre 1943 durante la tragica razzia del ghetto di Roma — ricorda — vennero catturati tutti i componenti della famiglia di mia madre, Elvira Piperno. La sera prima si erano radunati nella casa di famiglia a piazza Ippolito Nievo per festeggiare un compleanno. Furono deportati tutti: nonni, zii, cuginetti; il più piccolo aveva 8 mesi. Sedici persone. Anche mio padre Angelo perse la sorella con le due figlie adolescenti. Da Auschwitz non è tornato nessuno. Avevo due anni, mio fratello Leo quattro. Ci salvammo perché uno di noi due quella sera era malato e i miei preferirono restare a casa. All’epoca abitavamo ad Albano Laziale, visto che mio padre forniva materiale agricolo alle Ville Pontificie di Castel Gandolfo. Saputo di quanto accaduto, per tre giorni ci nascondemmo da alcuni amici la cui casa aveva una botola dalla quale si poteva accedere a uno spazio celato. Poi, per interessamento di monsignor Giovanni Battista Montini, allora sostituto della segreteria di Stato vaticana, che conosceva mio padre, ci fu dato rifugio presso il Collegio di Propaganda Fide, adiacente alle Ville Pontificie».

Elvira Piperno e Angelo Terracina il giorno del matrimonio (Roma, 1938)
In alto: Alberto Terracina con la mamma Elvia e un soldato
della Brigata ebraica (Todi, giugno 1944)
Per ritrovarli è persino andato in televisione. E ora che ci è riuscito e ha incontrato alcuni nipoti di quel medico, sente di aver saldato almeno in parte il suo debito di riconoscenza.(©L'Osservatore Romano – 27 gennaio 2016)
