di Cristiano Abbadessa
Lunedì sera (non) ho visto uno dei più inconcepibili film che siano stati partoriti dalla cinematografia contemporanea. Il film in questione è The tree of life, di Terrence Malick, vincitore della Palma d’Oro al festival di Cannes nel 2011 (cioè soltanto un anno fa).
Se fossi stato più accorto e avessi seguito i consigli che io stesso dispenso in questo blog a proposito di recensioni e commenti, mi sarei evitato il fastidio di buttare via venti minuti del mio riposo serale. Per una volta, distratto dall’eco mediatica e dalla notorietà dell’opera in questione, non mi sono documentato con attenzione e mi sono predisposto alla visione di un film tanto celebrato. Fossi stato più prudente, avrei più o meno capito di che cosa si trattava e, pur non potendo immaginare l’abisso reale, mi sarei astenuto dal mettermi alla prova.
Le recensioni e i commenti sui siti di cinema sono andato a leggermeli il giorno dopo, per legittima curiosità. Erano in effetti abbastanza espliciti e, seppure con qualche reticenza, mi avrebbero fatto capire che quel tipo di pellicola non poteva non dico piacermi, ma neppure risultarmi sopportabile: nessun contenuto, nessuna narrazione, tutto un gioco virtuosistico e virtuale di simbolismi, immagini, parole, fotografie e montaggio. Peraltro con effetti a mio avviso piuttosto urtanti, anche dal puro punto di vista estetico, fino a farmi sospendere la visione, appunto, dopo una ventina di minuti faticosamente sofferti nell’attesa che iniziasse qualcosa; fatto che mi capita di rado, perché in genere un film, come un libro, anche se bruttino riesco a reggerlo fino alla fine (ma la prospettiva era di oltre due ore di angoscia visiva, e francamente mi sembrava troppo per qualsiasi masochismo intellettuale).
A lasciarmi perplesso, però, è la cautela con cui anche i più liberi commentatori si sono accostati a questa presunta opera d’arte. Se da un lato, infatti, si capiva persino nelle recensioni vagamente positive che il film era un insopportabile arzigogolo sul nulla, dall’altra, anche chi se ne dichiarava deluso e annoiato, si sentiva in dovere di accennare al fatto che però, insomma, dal punto di vista meramente artistico, per quanto riguardava l’aspetto cinematografico, nell’uso delle tecniche e dei linguaggi… e il discorso restava ambiguamente in sospeso.
Esemplare, in questo senso, l’incipit della recensione letta su MyMovies, nella sezione “dalla parte del pubblico” e opera di Boyracer, che qui riporto: «Premettiamo che assegnare delle stelle a questo film è veramente difficile. Se le stelle rappresentano il valore puramente artistico del film, sono 5. Se rappresentano un consiglio ad andarlo a vedere, la stella è una (non fatelo!)».
Ora, e qui vorrei provare a uscire dal già troppo enfatizzato caso specifico, devo dire che una premessa di questo tipo mi lascia alquanto interdetto. È pur vero che il recensore, nel seguito, spiega perché secondo lui le tecniche cinematografiche siano state utilizzate con maestria (affermazione sulla quale non concordo, fra l’altro), ma la domanda basica mi sorge spontanea: come è possibile ritenere che un’opera sia, dal punto di vista artistico, un capolavoro e, contemporaneamente, sconsigliarne in forma drastica e assoluta la visione (o la lettura) a tutto il pubblico senza eccezioni?
Ritrovo qui la contraddizione che già altre volte ho segnalato in campo letterario. Il sapiente uso delle tecniche e degli artifizi (ammesso che sapiente sia) non produce nulla di apprezzabile in assenza di un contenuto, di un qualcosa da comunicare a chi si accosta. Non si può neppure parlare, in verità, di perfezione formale, perché questa suggerirebbe comunque delle emozioni che invece nel nostro caso (secondo il recensore stesso) sono del tutto precluse.
Non siamo di fronte, quindi, al tradizionale contrasto tra un canone estetico (cinematografico, pittorico o letterario che sia) fine a se stesso e la capacità di trasmettere un messaggio (per esempio attraverso la narrazione). Siamo invece di fronte a una mera esibizione di tecniche senza una traccia e senza un’anima, affastellate per il puro gusto di disorientare, stupire e annoiare, con la pretesa, neppure troppo velata, di trasmettere il senso di una presunta superiorità intellettuale rispetto a chi “non è in grado di capire”. Peccato che, spesso, dietro tanta prosopopea non ci sia proprio nulla da capire, non ci siano né messaggi né idee, e tantomeno la voglia o la capacità di comunicarli al mondo.
In questi casi viene spontaneo aspettare il Fantozzi di turno capace di dire quel che tutti pensano del “capolavoro”. Ma in realtà, forse, si tratta di una citazione sbagliata, perché in definitiva ancora basata sul contrasto tra la ricerca estetizzante e la percezione “popolare”. Di fronte a questi artifizi autoreferenziali, incapaci di lasciare visibile traccia nel reale, credo sia in effetti più giusto recuperare la purezza di sguardo del bambino che, solo, si prende il carico di constatare che il re è nudo, e che il finissimo ed elegante vestito per lui creato è in realtà il nulla.