Pure la Ferrari, chi l'avrebbe detto... Un anno fa titolavamo "Se ci portano via anche il made in Italy"... (di Bruno Manfellotto - l'Espresso)
Se ne sono portati via un altro bel po'. Intanto i cinesi mettono gli occhi sull'Ansaldo Breda che per anni ha insegnato al mondo come fare i treni, e Luca Montezemolo lascia Maranello accusando: «Anche la Ferrari diventerà americana». Come è già successo con la Lamborghini. Che si continua ad assemblare qua, certo, ma a onore e profitto altrui.
Prima, un lungop elenco di "passi pure lo straniero". Vale la pena rinfrescare la memoria: Krizia parla cinese; Star, Gancia e Fiorucci spagnolo, come il Riso Scotti. I francesi hanno portato a casa un bel po' di pezzi pregiati: Loro Piana, Fendi, Bulgari, Acqua di Parma, Gucci, Pucci e Bottega Veneta. In mano araba sono finiti Valentino e Missoni e ora pure Alitalia. Agli americani è passata Poltrona Frau, venduta - ironia della sorte - dall'avvocato Montezemolo. Naturalmente si potrebbe continuare con Orzo Bimbo, Buitoni, Perugina, Pernigotti, Amaro Averna, San Pellegrino, Birra Peroni, Parmalat… E per carità di patria qui si tace dell'epopea Telecom.
Già, ma perché il made in Italy se ne va? Per più di una ragione. Un imprenditore cede per fare cassa e poi investire in finanza e in immobili, che è meno rischioso e più redditizio perché gli utili relativi vengono tassati la metà della metà. Perché non è facile crescere in un mercato sempre più vasto e difficile. O perché non vuole crescere e finire così nella tagliola dei vincoli sindacali, dei crediti bancari, degli equilibri manageriali. Spesso cede perché non ha preparato in tempo la successione, perché il mercato domestico è asfittico, o perché un socio straniero consente di allargare i mercati, spostare le attività all'estero e sfruttare migliori condizioni fiscali.
La Fabbrica Italiana Automobili Torino che diventa Fiat Chrysler Automobiles ne è l'esempio principe; la Ferrari costretta a perdere la sua autonomia per portare lustro e valore alla holding che si quota a Wall Street, la prova che mancava. Ma di Marchionne in sedicesimo ai quali Diego Della Valle potrebbe far arrivare i suoi strali ("Paghi le sue tasse personali in Italia") ce ne sono a decine.
Intendiamoci, non è pratica solo italiana. Negli Stati Uniti capitalisti e protestanti per eccellenza dove "pagare le tasse è bello", come predicava Tommaso Padoa Schioppa, l'elusione fiscale è piaga nazionale. Ma lì il governo non dà tregua ai furbetti dell'aliquota, a differenza di qui dove un procuratore generale applica la legge e spiega perché Dolce & Gabbana non evadono le tasse trasferendo qualche loro marchio in terra straniera. Già, perché il mondo è globalizzato e pensare di tenere un'impresa al di qua delle Alpi e del mare è assurdo. E allora, che senso ha parlare ancora di "italianità"? Forse uno ce l'ha.
Un paese che non aiuta chi è costretto a vendere gioielli svela al mondo intero di non avere la forza per impedirlo, di non essere riuscito a creare un sistema-paese, di rinunciare all'immensa forza d'urto che avrebbe il made in Italy se marciasse come un fronte unito e compatto, di non sfruttare investimenti e potenzialità. Per averne conferma, si legga l'inchiesta di Fabrizio Gatti svolta tra lo stabilimento ex Alfa di Arese, dismesso e destinato a investimento immobiliare, e l'insediamento Toyota a Burnaston con le sue regole e i suoi codici made in Japan.
Certo, lo spiega bene Riccardo Gallo: il made in Italy non sono solo linee di produzione, ma soprattutto centri di creatività, ideazione, design. Teste italiane. Giusto, ma sono teste singole di italiani geniali, non è l'Italia. Sono i figli del capitalismo senza capitali sul quale regnava Enrico Cuccia; che preferiscono la dimensione familiare; che non corrono in soccorso di Telecom o di Alitalia. E che, se capita, litigano, com'è successo nelle poche ore che hanno preceduto l'addio di Montezemolo. Finendo così, proprio loro che dovrebbero essere borghesia produttiva e classe dirigente, per scimmiottare i modi di quei politici e di quei partiti ormai spenti che disprezzano da cinquant'anni.
Bruno Manfellotto
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