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Quando la toga si tinge di rosa

Da Ilnazionale @ilNazionale

toga_tribunale_28 GENNAIO – Il 9 febbraio 2013 il libero accesso alle donne in magistratura compie 50 anni. Era il 09.02.1963, infatti, quando la legge n.66 permise alle donne di accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera. Due anni dopo si tenne il primo concorso aperto a tutti e da allora la quota di donne che, sovvertendo la tradizionale ripartizione sociale dei ruoli, ha deciso di abbracciare la toga ed impegnarsi in prima linea per la tutela della giustizia è aumentata di anno in anno arrivando oggi a pareggiare, quasi, il numero dei colleghi di sesso maschile.

In proposito, il 24 settempre 2012 il Consiglio d’Europa ha pubblicato i risultati del consueto Rapporto di Valutazione sui Sistemi Giudiziari Europei (CEPEJ), stilato sulla base dei dati elaborati dall’Istituto di Ricerca sui sistemi giudiziari in collaborazione con la Commissione per l’Efficienza della Giustizia. I risultati denotano, tuttavia, che nonostante la sostanziale parità tra la componente maschile e femminile nei tribunali di primo e secondo grado (Primo grado: 48% uomini 52% donne ; Corti d’Appello: 60% uomini 40% donne) per quanto attiene agli incarichi direttivi, differentemente da quanto accade nella gran parte degli altri Stati d’Europa, la situazione italiana è lontana dal promuovere una piena affermazione del valore professionale della donna (Presidenti di Tribunale di primo grado: 169 uomini, 25 donne; Presidenti di Corte d’Appelo: 18 uomini, 3 donne).

L’analisi delle radici di un simile sbilanciamento costituisce un’occasione per riflettere sul panorama sociale e culturale italiano, spesso additato di maschilismo dalla stampa internazionale, anche a causa dei tanti, troppi, cattivi esempi a livello mediatico quanto politico, offerti da protagonisti di entrambi i sessi. Certo le cose sembrano migliorate rispetto al non lontano 1947 quando il costituente della DC, nonché presidente di Tribunale, Antonio Romano affermava che la donna “non (è) indicata per la difficile arte di giudicare. Questa richiede grande equilibrio e a volte l’equilibrio difetta per ragioni fisiologiche”. Eppure l’effettivo superamento della persistente disparità pubblica tra uomo e donna stenta a decollare. Il raggiungimento di una parità effettiva tra i sessi che vada oltre le semplicistiche affermazioni di principio si avrà solo nel momento in cui si smetterà di sentire l’esigenza di prevedere “quote rosa”, quando l’ingresso della donna nel mercato del lavoro smetterà di significare difficili equilibrismi nel tentativo di combinare nelle ristrette 24 ore quotidiane lavoro retribuito, lavoro gratuito familiare, assistenza agli anziani e crescita dei bambini.

Stiamo vivendo un periodo di transizione caratterizzato da un’inevitabile trasformazione dei tradizionali ruoli familiari e sociali. La famiglia cambia forma, quantitativamente e qualitativamente. Si tratta di cambiamenti indirizzati tanto all’uomo quanto alla donna che, scardinando i tadizionali schemi culturali, ridisegneranno nei prossimi 50 anni l’uguaglianza dei sessi.

La sfida lanciata dalla legge n.66 è stata l’avvio di sostanziali modifiche in campo lavorativo che evitassero all’uguaglianza sostanziale sancita dall’articolo 3 della nostra Costituzione di ridursi a mero flatus voci. Le sfide che raccogliamo, oggi, ogni giorno e che costituiranno il nostro lascito per le generazioni del secolo a venire riguardano l’elaborazione di un welfare attento alle misure di conciliazione tra vita privata e lavoro professionale, l’abbandono dell’inevitabile scissione tra vita familiare e carriera e la modifica dei limitati paradigmi etici a favore dell’ascolto della molteplicità delle voci morali presenti sullo scenario sociale, a partire dalla sensibilizzazione dei giovani perchè tutto ciò possa effettivamente avvenire.

Solo così l’accesso delle donne agli incarichi direttivi nei prossimi cinquant’anni non solo sarà permesso, ma non sarà nemmeno più considerato rivoluzionario, e solo così anche la vita politica, oggi profondamente in crisi, allargherà i suoi confini morali. Giustizia e diritti, mondi concepiti come tipicamente maschili, si rapporteranno finalmente col mondo della cura e della relazionalità per un impegno solidale e legislativo che risponda realmente ai bisogni dell’altro nella concretezza della situazione, e per un rinnovamento e uno sviluppo sociale ed economico da cui (ri-)cominciare.

Beatrice Marini


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