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Quando lo Stato è peggio della mafia: lo scandalo Telejato
Creato il 29 aprile 2012 da AndreaintontiPartinico (Palermo), 29 aprile 2012 – Dove non arrivò la mafia, ci pensò lo Stato. Che in certi casi – troppi, ad essere sinceri – non si capisce bene dove finisca l'una e inizi l'altro. Dopo la “Trattativa” dei primi anni Novanta, quella seguita all'epoca stragista, oggi l'alleato delle famiglie mafiose si chiama con un termine inglese: “switch off”, che è un modo come un altro per dire: “Ok, ora basta. Chiudete baracca e burattini”. Per edulcorare ancora di più la pillola l'hanno chiamato “Beauty contest”, come fosse una sfilata di moda. Tipo “Miss Italia” o cose simili.
«Non sono riuscite a fermarci le intimidazioni mafiose e ci ferma una legge dello Stato. Non ci è stato concesso di fare domanda, i termini scadevano oggi». La commenta così la chiusura della sua televisione, Pino Maniaci. La notizia è, ormai, certa: a giugno Telejato, quella “televisione antimafia in tre stanze” chiuderà i battenti perché, come vuole la legge, non è riuscita ad attrezzarsi per passare al digitale terrestre, insieme ad altre duecento emittenti “comunitarie”.
Permettetemi di essere franco: finché chiude una televisione il cui palinsesto è basato principalmente sulle televendite può dispiacere, a livello umano, per chi ci ha lavorato fino a quel giorno, ma una in più una in meno fa poca differenza.
Chiudere una voce antimafia è diverso. Profondamente diverso.
Chiudere una voce antimafia è come quegli omicidi fatti da Cosa nostra, dalle 'ndrine o dalla camorra che vengono fatti passare per “questioni di corna”;
Chiudere una voce antimafia è come quando gli alti vertici della Procura di Palermo volevano caricare il giudice Giovanni Falcone di processi semplici perché con il suo modo di fare, con il suo modo di controllare anche gli “intoccabili” della Palermo che conta, avrebbe sicuramente rovinato l'economia palermitana.
Chiudere una voce antimafia, poi, vuol dire anche un'altra cosa: mettere a repentaglio la vita di chi quella voce in questi anni ha fatto in modo che fosse forte, che si alzasse anche oltre le minacce, le botte e le macchine bruciate.
C'era stato, qualche settimana fa, quel tal candidato alla carica di sindaco di Palermo, Tommaso Dragotto, che aveva annunciato che Telejato la salvava lui. Solo che poi, tanto per far capire che la politica lui la sa fare davvero, alle parole non sono seguiti fatti concreti. E questo, permettetemi una piccola digressione dal tema, dovrebbe far pensare chi alle prossime elezioni avrebbe intenzione di votarlo.
I funerali di Telejato saranno celebrati il prossimo 30 giugno, quando la Sicilia passerà al digitale terrestre. Un minuto dopo quel signore con i baffi, che spesso – per chi come me non è siciliano – si fa anche fatica a capire quando commenta le notizie in dialetto, sarà un uomo in pericolo. Ancora più di quanto non lo sia stato fino ad ora.
Perché, come diceva Giovanni Falcone, «si muore quando si è lasciati soli». Che è esattamente quello che lo Stato farà il prossimo 30 giugno.
Qualunque cosa accadrà dopo non sarà da attribuire alla mafia. Sarà colpa dello Stato. Che in certi casi – troppi, ad essere sinceri – non si capisce bene dove finisca l'una e inizi l'altro.
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