Magazine Diario personale

Quando offrire un caffè ti migliora la giornata

Da Aquilanonvedente

caffèL’azienda per la quale lavoro ha gestito per decenni anche un manicomio.

In un imponente edificio di tre-quattro piani, separato dal corpo di fabbrica principale e circondato da un grande parco, hanno trovato alloggio e assistenza per anni centinaia di matti, curati da personale religioso e infermieri manicomiali. Gli infermieri manicomiali erano per lo più ex contadini, ex manovali, ex camionisti del luogo, spediti a fare un breve corco di formazione all’ospedale, finalizzato ad acquisire tale qualifica. Il personale religioso erano suore, inquadrate in una struttura gerarchica parallela rispetto a qualle ufficiale (non so se qualcuno si è mai preso la briga di raccontare di quali misfatti si è macchiato il personale religioso nelle strutture assistenziali). Entrambe le categorie erano selezionate soprattutto in base a un elemento: la prestanza fisica.

Con la legge Basaglia del 1978 si è avviato il processo di chiusura del reparto psichiatrico e nel giro di tre-quattro anni il manicomio è stato svuotato. Quell’enorme edificio è rimasto in piedi per altri venticinque anni, ormai desolatamente abbandonato. Il parco intorno è diventato una selva inestricabile di arbusti e cespugli, finché nel 2007 il tutto è stato “alienato” (il termine che usa la pubblica amministrazione per dire che una cosa è stata venduta) e abbattuto, per fare posto a nuove urbanizzazioni.

Durante il processo di chiusura del manicomio i matti sono stati spediti ai loro luoghi d’origine: altri Comuni, altre Province, altre Regioni, altre strutture sanitarie dovevano prendersene carico. Questo è accaduto per la maggior parte dei matti, ma non per tutti. Decine di persone erano in quel posto quasi dalla nascita, non avevano parenti o se li avevano non volevano o non potevano prendersene cura.

Queste persone sono state trasferite in altri reparti della casa di riposo e hanno acquisito la qualifica di ex psichiatrici. Perché ex? Non perché fossero guariti, ma semplicemente perché il loro vecchio reparto era stato chiuso. Quindi i matti sono diventati inabili ex psichiatrici, e tali sono rimasti per un bel po’ di anni.

Ma, si sa, lo Stato è sempre alla ricerca della migliore definizione per i propri cittadini e quindi quando questi inabili ex psichiatrici hanno raggiunto i 65 anni, l’azienda USL è intervenuta prontamente con una sua commissione e ha decretato: “Ma questi non sono più inabili, questi sono anziani!” E così i matti, da inabili ex psichiatrici sono diventati anziani, molti dei quali autosufficienti o parzialmente autosufficienti.

I poveretti, in tal modo classificati dalla competente commissione socio-sanitaria, avrebbero forse potuto incamminarsi verso una serena vecchiaia, ma si sa, lo Stato una ne fa e cento ne pensa (o è il contrario?).

Le case di riposo sono scomparse, trasformate in case protette, o residenze sanitarie assistenziali e qui gli autosufficienti, parziali o meno, non ci stanno, non ce ne deve essere proprio traccia! Che fare allora? Idea: i matti, trasmutati in inabili ex psichiatrici e divenuti poi anziani, sono trasmigrati nella categoria dei disabili. Ed è in questa categoria che si trovano adesso, ma non è detto che non possano diventare qualcos’altro. Dipende. Da che cosa? Semplice: dal fatto che si trovi un’altra categoria che prevede standard assistenziali più bassi, perché tutte queste trasformazioni “genetiche” hanno avuto un elemento in comune: risparmiare sull’assistenza a questi poveretti.

Perché ho fatto questo breve excursus?

Perché stamattina sono andato nell’altro stabilimento aziendale e attraversando il centro socio riabilitativo (dove stanno i disabili) mi è venuto incontro il solito ex matto, ex inabile ex psichiatrico, ex anziano, ora disabile.

Le orecchie a sventola, i tratti del viso marcati, due cespugliose sopracciglia, lo sguardo velato di tristezza, la schiena ricurva, la camminata goffa. Ogni volta che mi vede mi saluta e inizia a parlare, rigorosamente in dialetto. “Come va? Dove vai? Come stai?” A volte incespica nelle parole, abbassa lo sguardo, non osa avvicinarsi più di tanto. Non so come si chiami, da dove venga, da quanto sia lì. Se lo incontravamo io e la piccola quando andavamo a trovare mia madre, lei mi stringeva la mano, nascondendosi dietro di me e io le dicevo: “Non devi avere paura dei matti. Devi temere quelli che vengono chiamati normali“.

Stamattina, preso da un piccolo languorino, mi sono appropinquato alla macchina del caffè e allora lui mi si è avvicinato e mi ha sussurrato: “Mi dai un euro?”

“Un euro? – ho ribattuto – E cosa lo fai un euro?”

“Prendo il caffè” mi ha risposto, abbassando lo sguardo.

Ho infilato la mia chiavetta nella macchina distributrice di bevande (tutti mi invidiano la chiavetta; pare che non ce l’abbia nessuno in azienda e io, lo confesso, quando la uso per  offrire il caffè a qualche collega – rigorosamente femmina – faccio un po’ il figo) e gli ho detto: “Prendi quello che vuoi”

Lui ha schiacciato il pulsante del tè, ha aspettato che il bicchierino si riempisse e poi se lo è sorseggiato lì vicino, aspettando che io mi finissi il mio caffè. Poi ci siamo salutati. “Ci vediamo la prossima volta, eh?” ho detto io. “Sì sì” ha ribattuto lui, seguendomi fino all’uscita, con la sua andatura goffa e lo sguardo soddisfatto.

Non so perché, ma questo episodio ha “bonificato” un po’ la mia giornata…

Ti regalerò una rosa



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