Molte cose ci ha raccontato l'altro giorno Eraldo Affinati, nell'incontro organizzato dalla Fondazione Baracchi alla Villa Mausolea di Soci, in Casentino. Molte cose, per spiegarci come nelle sue pagine scrittura ed esperienza sono così strettamente intrecciate che non ci sarebbe scrittura senza esperienza. E che, anzi, la scrittura in realtà è l'unico modo per dare un senso all'esperienza. Mica solo per lui. Anche per i ragazzi che incontra ogni giorno nel suo lavoro di insegnante.
Perchè saranno i cosiddetti ragazzi difficili, magari arrivati in Italia da altri paesi, portandosi dietro altre culture e altre lingue. Eppure il futuro lo cominciano a costruire solo nel momento in cui abitano davvero anche la nostra lingua. Quando con questa lingua cominciano anche a raccontarsi.
Non so se tra le tante domande che avevo in testa di fargli c'era anche questa storia - oppure se c'è capitato lui, sull'onda di un'altra domanda. Ma è stato bello sentire Eraldo raccontare di una "promessa mantenuta", la storia del viaggio con Omar e Faris, due suoi allievi che, dopo anni di assenza, ha voluto riaccompagnare in Marocco.
Un viaggio raccontato nel suo La città dei ragazzi. Un viaggio, insieme a due specialisti della lontananza, che difficilmente ha uguali in tanta letteratura che pretende di portarci ai quattro angoli del mondo.
Con quante domande era partito: perché erano fuggiti dalla loro terra? Da cosa erano esattamente scappati? Chi erano i loro padri? E quante risposte, in un villaggio dimenticato del Marocco.
Quante parole, per raccontarsi e per raccontare a tutti noi.