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Eraldo Affinati, Elogio del ripetente

Creato il 31 ottobre 2013 da Spaceoddity
Eraldo Affinati, Elogio del ripetente[L/D] L'insegnante è lo specialista dell'avventura interiore. L'artigiano del tempo. Il mazziere della giovinezza.
È al mestiere di insegnante, al lavoro più bello del mondo, al suo vero ruolo, che Eraldo Affinati dedica quest'appassionato encomio. Elogio del ripetente (2013) è l'ultimo titolo, in ordine di tempo, del popolarissimo scrittore romano che qui offre uno spaccato della sua vita quotidiana tra i banchi di scuola. Il professor Affinati non fa nulla per nascondere la sua simpatia partigiana nei confronti degli ultimi, di quei ragazzi che passano sotto i suoi occhi e sui suoi registri quasi come su una secca, prima di essere risucchiati da qualche perfida risacca. Ce li presenta, si direbbe, uno a uno, in quella luce di speciale tenerezza che rende grazia a tutti coloro che abbiamo conquistato contro ogni speranza. Lo scrittore non ci risparmia, è chiaro, gli aspetti meno seducenti di un incontro difficile che di giorno in giorno si deve riverificare, si direbbe contro ogni avversità e a dispetto di burocrati ed entomologi della docimologia, ovvero della selezione naturale degli esseri umani. Però sta qui il punto: i ragazzi non vanno promossi perché ci diano qualcosa, bensì perché sono qualcuno e hanno già pagato, stanno pagando carissimo, il prezzo del loro essere gli ultimi, alle soglie della sparizione sociale ed esistenziale - più che della dispersione.
Al collega Affinati darò ora del tu: non perché abbia qualcosa da insegnargli, io - io, dico, che solo ora, dopo solo dieci anni di insegnamento, e quasi tutti al liceo classico, approdo infine al lavoro in un professionale della provincia di Palermo. Eraldo Affinati, Elogio del ripetenteGli darò del tu per chiedergli, a quattr'occhi, cosa accada quando questa magia che lui racconta non si verifica, o almeno tarda - e comunque quando non si trova in sé questo spazio per la magia. È vero: Eraldo Affinati non nega i suoi momenti di sconforto, anzi; ma la costruzione del libro è in definitiva quella di un vincente. E, posso garantirlo, a fare questo lavoro molto di rado - e spesso solo per caso e per errore - si ha l'impressione di vincere.
I miei ragazzi non lamentano di esser capitati oltre la cattedra di un bolscevico, perché di chi siano bolscevichi e menscevichi non hanno la più pallida idea - e, se anche l'avessero, la scarterebbero come cosa che non li riguarda. Non sanno cosa sia un capitolare e, di sicuro, non sono disposti a ricordarlo con me. Voglio dire che non dispero, no; e che scelgo io questo lavoro, giorno dopo giorno, oggi molto più di ieri. Conosco benissimo - e chiunque insegni davvero conosce - quegli sguardi, quegli incontri di anime che un po' ancora si cercavano. Ma bisogna dirlo, almeno una volta in più, che è dura, durissima. Non perché si pretenda un aumento di stipendio o di considerazione, e neanche per evitare facili romanticherie da professori crocerossine e missionari dell'ultima ora (e Dio solo sa quanto ce n'è bisogno, di missionari, ma veri); bensì per combattere quel senso di solitudine in classe che ricorda lo stesso Eraldo Affinati. La solitudine di una porta che si chiude dietro le tue spalle, quando si affronta finalmente il mondo davanti a noi, da soli. Il senso di chi cresce e vede spalancarsi davanti agli occhi quanto sia difficile e doloroso farci i conti, e chissà se si vince o si perde. Data la posta in gioco, non è un problema da nulla.

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