SWAB 2015, fiera d’arte contemporanea emergente, è andata in scena alla sua ottava edizione dall’1 al 4 ottobre scorsi alla Fira Barcelona con la presenza di 65 gallerie per un totale di 22 paesi. Una serie di iniziative – quali una ventina di gallerie d’arte collegate in visite guidate – nonché di eventi collaterali – quali performance e vari vernissage – hanno poi sostenuto la kermesse anche nel resto della città.
La sottoscritta, ormai sempre più curiosa e dal gusto e dalla riflessività forse in graduale maturazione sul tema (forse, appunto), ha osato, chiesto e ottenuto il pass con l’idea di farsi la solita full immersion che giova a tutti: a lei in primis così continua a vedere cose e imparare, a voi lettori ch’ella ama introdurre almeno per sommi capi a ciò che vede, e agli organizzatori della manifestazione, che si stamperanno questo articolo e lo metteranno in archivio – con l’effetto collaterale di accumulo e di rendere l’archivio stesso, in quanto tale,“opera d’arte” (Mark Dion, non v’è da dubitarne, ha fatto scuola…).
Ma andiamo con ordine. La vostra – ormai persuasa che l’eccentricità protegga, e probabilmente influenzata dalla fiera steampunk che sta avendo luogo in parallelo a pochi isolati di distanza – ha optato per un confortevole look costituito da gonna svasata asimmetrica lunga alla Morticia Addams, anfibi, borsa con disegno di caravella pirata (grazie, Eleuthera!), e in tasca, a darle conforto e sicurezza, Destinazione mondo.
Forme e politiche dell’alterità nell’arte contemporanea di Valentina Lusini. Se infatti giro per queste fiere cercando al contempo di provare piacere nella pura contemplazione, di imparare d’arte ed estetica, di individuare tendenze e di verificare nuove forme e nuovi significati del ‘simbolico’ – riflessi, questi ultimi due, della mia formazione – alle fiere si va di norma per vendere e comprare, e le modalità relazionali e il tono dei discorsi a volte spiazzano l’ingenua sottoscritta facendola sentire un pesce fuor d’acqua privo della competenza per esprimersi.
D’altronde non proviamo un po’ tutti un certo disagio davanti a certe opere il cui significato o le cui quotazioni non ci sono immediatamente comprensibili?
Tendenze nei contenuti chiaramente riconoscibili a questo giro: terrorismo, conflitti, armi, violenza della polizia, perversione dei media nell’inculcare nelle menti dei cittadini false credenze e false ragioni di terrore.
Shakerando il tutto, stavolta s’è avuto come risultato quello di bombe a mano in alabastro dalla testa in acciaio cromato e cervelli in forma di bombe a mano quali originali sculture o fumetti pop in tiratura
limitata, collage di passamontagna – chiaramente riferiti alla divisa del terrorista nell’immaginario collettivo – costruiti di volta con articoli di giornale sui consumi alimentari, sulla condizione della donna, sull’ambiente e via dicendo, anche questi in vendita da un sito internet in tirature limitate, dipinti che ritraggono in tutta la sua ferocia la violenza efferata della polizia accompagnati dalla statua in resina di un giovane contestatore a terra, morto, vicino alla mano del quale è posata la pietra che presumibilmente stava lanciando.
E di qui non potrà non accompagnarmi una certa sensazione di irrequietezza: sarà che sono troppo sensibile e comunque di certo a disagio rispetto al rapporto arte-mercato, ma non posso evitarmi una domanda banale: se molta dell’arte contemporanea si rivolge all’indagine, alla rappresentazione, alla promozione della riflessione, e in alcuni casi anche alla volontà di stimolare e accompagnare un cambiamento nel reale, la sua mercificazione così plateale non è indice d’una qualche perversione?
Vero è che il mecenatismo è sempre esistito, così come che oggigiorno sempre più si sia risolto in acquisto dell’opera più che nel sostegno alla ricerca, alla riflessività e alla produzione dell’artista, ma come può, l’artista, viversi bene il fatto che l’acquirente facoltoso in grado di acquistare le sue opere sia il medesimo che probabilmente si arricchisce grazie allo status quo criticato da queste opere? Mah, non capisco.
Altra tendenza qui presente ormai in àuge da anni, e che quindi mi limito a citare, la rielaborazione di personaggi della cultura pop secondo lo spirito del tempo – e perciò rendendoli protagonisti di scene di sesso, sodomia, violenza varia, così come la ricorrenza di mappe e cartine geografiche, ma tal opzione, accanto da una parte al sicuro appeal estetico per cui alcuni artisti vi ricorrono senza alcun senso, può avere dall’altra una sua ragion d’essere profonda come premessa intorno alla quale costruire discorsi critici verso quelli mediatici e politici imperanti (come nel caso di Opiemme).
La dimensione di Swab, che malgrado le cifre indicate è ancora contenuta rispetto ad altre fiere che hanno luogo su suolo iberico, permette altresì di parlare direttamente con i galleristi – cosa che decido di fare per cercare da una parte di comprendere un po’ d’una professione che altrimenti, nella mia immaginazione, consiste unicamente nell’essere meri venditori dall’ampio margine di guadagno potenziale al pari di gioiellieri, immobiliaristi e macellai, e dall’altra d’avere indicazioni su chi sia il collezionista oggi (una persona abbiente che vuol giusto fare un investimento?, un narciso che vuol rispecchiarsi nella propria possibilità d’acquisto?, un inquieto che pensa di pacare la propria irrequietezza con l’accumulo materiale?, o magari, al contrario, un appassionato, sensibile e disinteressato mecenate?). Domandine da prima elementare.
Passo oltre chi – onestamente ma un po’ brutalmente – si limita ad appendere quadri alle pareti con artista+titolo+prezzo, peggio ancora con l’indicazione dello sconto applicato, e mi difendo – interpellata su un eventuale interesse – rispondendo d’essere una spiantata antropologa-giornalista. Ma c’è chi di rimando si entusiasma, mi dà corda, e perde anche un ragionevole lasso di tempo per raccontarmi.
D’altronde è strategia anche questa: come giornalista si presume scriverò e magari segnalerò la loro galleria – meglio trattarmi bene…
Il mio primo interesse rispetto a Swab consiste nel verificare come sia stato organizzato l’evento Swab Gate, in cui l’intenzione è presentare quattro artisti africani e caraibici che lavorano con la pittura tra Africa ed Europa. In realtà l’introduzione ufficiale agli stessi, che recita la volontà di mettere in questione – per il tramite della loro pratica – “categorie in vigore qui da noi come la pittura e l’origine geografica”, mi lascia un po’ perplessa: in una situazione di circolazione globale degli artisti e delle opere nel mondo contemporaneo, di esistenza ormai pluridecennale di accademie d’arte, gallerie, fiere internazionali in paesi di tradizionale interesse antropologico (ovvero del sud del mondo), di presenza di grandi e significative mostre in tutto il nord del mondo e in particolare in Europa (da Magiciens de la terre ad Africa Remix tanto per citare le due imprescindibili, per tacer dell’attuale 56. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia curata dal nigeriano Okwui Enwezor) e di coesistenza multi- e interculturale come cittadini ancora prima che artisti, parole come quelle introduttive suonano un po’ ingenue. Guardando ai fatti, però, due degli artisti qui presentati sono per me piacevoli scoperte: Steve Bandoma, congolese, rappresentato dalla francese Galleria Angalia, e Wycliffe Mundopa, zimbabwiano, rappresentato da First Floor Gallery Harare.
Steve Bandoma, nella volontà di emanciparsi da quella tendenza che spesso relega ancora gli attuali artisti congolesi a modalità espressive tradizionali, mescola acquarello e collage recuperando immagini e contenuti sia dall’iconografia locale (ad es. il soggetto e l’idea delle statue nkisi) sia dalle riviste patinate di moda. I suoi interessi sono chiaramente post-coloniali, ma in un’ottica di superamento delle distinzioni geografiche per promuovere piuttosto una critica generale al capitalismo e al materialismo – responsabili ai suoi occhi, nella loro attitudine predatoria, della devastazione, del saccheggio e della distruzione dell’intero pianeta. Tra le sue opere cito (e vi fotografo) Colonized (2012).
Wycliffe Mundopa, invece, è più concentrato sulla vita dei sobborghi di Harare, dove incontra in particolare donne e bambini che patiscono condizioni marginali d’esistenza dovute alla perdita dei punti di riferimento tradizionali così come alla lotta quotidiana per la sopravvivenza economica, e dei quali la rappresentazione – sebbene non giudicante – è compassionevole e il fine critico, politico: tant’è che – in un contesto in cui già di suo l’artista lotta per venire riconosciuto pur se ricorre a un mezzo espressivo, la pittura, ancora percepito come “mezzo espressivo dei coloni” (parole della gallerista che me lo introduceva) – il suo ritrarre prostitute, madri, infermiere, padri di famiglia o personaggi equivoci con volti di pesce è proprio finalizzato a promuovere l’impersonificazione, e quindi la riflessione, negli spettatori locali, in un contesto dove la rappresentazione dev’essere metaforica altrimenti, se diretta, non verrebbe presa in considerazione.
Uscendo dalla cornice di Swab Gate per entrare in quella di Swab Solo – dedicata agli artisti latinoamericani – incontro il lavoro del colombiano Santiago Vélez, che usa materiali diversi, dal video alle microsculture, alle installazioni più complesse, per discutere dell’acqua e del rapporto tra questa, ambiente, società e denaro nel mondo attuale. Qui Vélez presenta una sintetica rassegna della sua produzione e delle sue preoccupazioni, che possono venire condensate – sia come poetica che come contenuti – nella microscultura Arbolitos de Florida (2014), serie di piccoli alberelli realizzati con banconote da due pesos che simboleggiano tanto la strada dove risiedono le agenzie di cambio di Buenos Aires – in cui sono anche presenti persone che cambiano illegalmente il denaro e vengono chiamate ‘alberelli’ – quanto il vero e proprio río de la Plata e il sistema di commerci e di vita che vi si sviluppano intorno.
In dimensione micro – a livello produttivo – ma macro in termini di intensità e ampiezza del discorso si situa anche l’opera di Alexander Korzer (qui Brockhaus 13, 2015) il quale intaglia una a una le pagine di vecchi dizionari per creare sorte di collage tridimensionali al fine di lavorare sui concetti di memoria e oblio, di sapere depositato e di ciò che è stato invece scartato e abbandonato dalla tradizione accademica. Il discorso, in realtà, investe anche il ricordo e il processo di conoscenza del singolo individuo, così che i libri intagliati diventano metafora del medesimo processo – per lo più inconscio – che ne forma il paesaggio interiore.
Il lavoro con altri materiali e la loro commistione con pagine, fogli, libri dei due artisti precedenti caratterizza anche la produzione dell’argentino Rubén Grau, qui portato dalla galleria Pabellon 4. L’intenzione di Grau, che è anche antropologo sui generis e ha svolto cinque anni di ricerca sul campo presso alcune comunità indigene amazzoniche negli anni ’80, è quella di rappresentare in forme di poesie visive il sentire che l’artista prova a partire da concetti ed emozioni, ricordi, cicatrici, memoria e corpo. In tal modo nascono composizioni che mettono in relazione l’esistente rappresentato (il contenuto d’una pagina d’un libro, la fotografia d’una biblioteca) con l’interpretazione personale del poeta, che vi aggiunge materiali semplici per metterla in scena.
In chiusura – malgrado l’elenco degli artisti che hanno carpito la mia attenzione e talvolta stimolato la mia immaginazione e il mio pensiero sarebbe ancora lungo (e di certo annovererebbe Per Duran, David Velasquez, Natalia Revilla, Gigi Piana) – menziono l’opera d’un artista che, nel carnet della galleria Rocio Santa Cruz di Barcellona che aprirà a breve, ho trovato stupenda per la semplicità e l’immediatezza nel rendere il rapporto concetto-rappresentazione: Les Creences (2104) di Jordi Mitjà, un’installazione dove una semplice lavagna luminosa proietta l’immagine di pezzi di vetro – eterei, trasparenti, evanescenti – sul supporto pesante e concreto d’una lastra di pietra scura. Non funzionano realmente così le credenze? Non le vediamo e sentiamo concrete e inalterabili quando in realtà sono solo ‘proiezioni’, riflessi, immagini che cambiano con l’angolazione e la luce?
Al solito, sono entrata in Swab per rimanerci un’oretta e ho stazionato cianciando per quattro, mettendoci in mezzo un bicchiere di vino bianco, un panino vegetariano e un caffè, riposando su pouf da svacco fantozziani e collezionando anche fotografie e pensieri poco seri.
D’altronde, quando vedi un esempio di arte in-situ come quello delle matitone che tracciano linee sulle pareti, ti verrebbe davvero voglia di verificare se le bombe a mano esposte nello stand a fianco possano svolgere la stessa funziona di quelle reali…
di Cristina Balma – Tivola