Magazine Cultura
Come da piccolo, quando una febbre vera, oppure dichiarata e generosamente riconosciuta, mi liberava dalla scuola. Non erano brutte giornate, quelle, però non filavano mai. Le ore erano un cargo appesantito che risale la corrente e chissà se e quando arriverà a destinazione.
Chiunque l'abbia detto aveva ragione: i decenni volano via, sono certi pomeriggi che non finiscono più.
E la televisione non era mica come ora, che a ogni momento c’è il cartone animato, il supereroe alle prese con i mali del mondo, la partita del campionato brasiliano. A parte L’isola dei Gabbiani e Avventura – da brividi la sigla, Joe Cocker con She came in through the bathroom window – tutto era di una noia mortale. Corsi di tedesco per principianti, lezioni sui principi della termodinamica, documentari sulle api o sul baco da seta, cose così insomma.
Meno male che c’erano i libri. Meno male che c’era Emilio Salgari.
Se il tempo passava e non passava, per farlo passare meglio avevo molti amici che si erano raccolti intorno a me per tenermi compagnia. Sandokan e quella simpatica canaglia di Yanez. Tremal-Naik e tutti i tigrotti di Mompracem. Il Corsaro Nero e la bella Jolanda.
Leggevo, in giornate così. Leggevo finché la testa faceva male, le righe ballavano sotto gli occhi, le pagine diventavano una macedonia di lettere. Se perdevo il segno era un problema ritrovarlo, perché la pagina girata si confondeva con quella ancora non letta. Tanto era un pezzo che la storia aveva abbandonato il libro.
Oppure no, ero io che avevo abbandonato quella stanza e già veleggiavo verso Maracaibo, sempre che non mi fossi perso tra i coccodrilli del delta del Gange.
A un certo punto il libro scivolava dalle ginocchia, le palpebre si abbassavano a saracinesca. Me ne andavo via, sul serio.
A volte mi portavo dietro una manciata di parole. A volte erano loro a inseguirmi, come un’eco. Parole tipo quelle del fratellino Yanez.
Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Siamo invecchiati fra le urla di guerra dei malesi e dei dayachi ed il fumo delle artiglierie, e rimpiango sempre Mompracem.
Sapete, hanno continuato a risuonarmi anche molti anni più tardi, queste parole. Anche quando mi sono ormeggiato a una scrivania con computer e ho insediato la mia Tortuga in una bella casa di un quartiere residenziale. Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Anche quando ho messo su pancetta e famiglia, quelle parole.
E come è vero, rimpiango sempre Mompracem.
La rimpiango e la cerco ancora sulla mappa dei miei sogni.
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