Magazine Diario personale

Quando volavo

Da Parolesemplici

Quando volavo

Qui e qui ci sono un paio di testi molto piacevoli sui sogni, e non solo.

Io coi sogni ci potrei riempire un blog, anzi un server intero. Eppure quei due post lì, non so perché, mi hanno riportato alla mente un mio sogno ricorrente. Ne facevo tanti, fino a una certa età: diciamo che avevo un pacchetto notte che conoscevo bene, terrori compresi.

A metà strada tra il bel sogno e l’incubo si stagliava, però, l’unico di cui in realtà mi vada di dire qualcosa. Il sogno in cui volavo. O meglio: in cui sapevo volare.

La cosa era eccezionale, emozionante: avevo veramente in pancia quel senso di sospensione e variazione di quota che si prova, che so, quando sei su un aereo. Quel frizzantino nello stomaco.

Esploravo, combattevo. Soprattutto, scappavo. I miei sogni erano sempre pieni di cose pericolose. In alcuni sogni non avevo speranza, e magari ero pure rallentato da dei denti troppo grossi che stavano digrignati all’interno della mia povera bocca, o da un cappello troppo abbassato e incastrato a coprirmi metà occhi – costringendomi a correre con la testa reclinata all’indietro per vedere dove stessi andando –, e insomma, in alcuni sogni niente da fare. Ma in altri, eh sì: sapevo volare.

Non appena subodoravo il pericolo – eh, oh! se ero guardingo! come un gatto! – via, volare, per aria, e lontano. Già stare in aria era praticamente una salvezza.

Dov’è la fregatura? Perché all’inizio parlavo di metà “incubo”? Il mio sistema di volo era difettoso. E non che sia capitato una volta, né novantanove su cento: è capitato sempre.

Per volare, intanto, avevo bisogno di qualche metro di strada: per decollare mi serviva la rincorsa. Potete visionare questo, è la cosa più vicina a quanto ho immortalato in qualche parte della mia mente. Non solo. La rincorsa doveva essere accompagnata da un regolare movimento di spinta delle braccia che, pugni chiusi, slanciavo con velocità in avanti. A un certo punto, cominciavo a sollevarmi. Questo movimento dei pugni e delle braccia, poi, dovevo eseguirlo a ritmo regolare per rimanere in aria. Più con ritmo da pagaia che non da uccello che, portato dai movimenti ascendenti dell’aria, battesse ogni tanto pigramente le ali per correggere la posizione. Fum, fum, fum, fum. Le mie goffe incursioni erano inoltre limitate in altezza. Circa cinque metri da terra, non di più.

Non di rado capitava che quel qualcosa che mi inseguiva (un mostro, un cane, dei gatti, un tubo per innaffiare…) continuasse a starmi di sotto, in attesa che facessi una mossa sbagliata, o che cadessi. Forse, semplicemente, che mi posassi. Ricordo ancora quegli sguardi crudeli, limati nella loro crudeltà da un’ombra di dubbio, qualcosa vicino al restare allibiti. Altre volte, ancora, mi ritrovavo davanti un muro troppo grande per essere aggirato in virata (l’angolo di curvatura, non bastasse il resto, era troppo largo), e così vi sbattevo irrimediabilmente.

Immensa fu la gioia il giorno, o meglio la notte, in cui imparai a volare. Cominciai a correre, e non succedeva niente. Io ero consapevole di essere in un sogno: lo ero sempre. Sapevo altrettanto bene che, nonostante fossero i miei sogni, essi avevano le loro regole, e io potevo al limite scoprirle e poi impararle, mai inventarle. Così un giorno nel correre, presi ad agitare le braccia, e qualcosa succedeva. Dopo varie notti, imparai appunto a volare. Accettai di buon grado il dover slanciare in avanti le braccia, in continuazione; presi per sorvolabile il limite in altezza del mio volo; mi sembrò normale anche lo schiantarmi di tanto in tanto, colpa evidente della mia scarsa attenzione e predizione delle traiettorie.

Avevo circa diciassette anni l’ultima notte in cui volai. La mia corsa non voleva saperne di trasformarsi in volo, nonostante io accelerassi ancora sulle gambe già stanche e dimenassi ancora più in fretta e con movimenti più netti, più comprensibili, le mie braccia. Dopo una fatica immensa, decollai: stavo a nemmeno un metro da terra, e il mio corpo minacciava costantemente di atterrare sulla pancia, non appena diminuivo di un poco il movimento delle braccia.

Non appena andai a sbattere contro un cestino della spazzatura e venni raggiunto dal mio arcinemico Tubo per innaffiare, proprio mentre quello – come già sapevo e m’aspettavo – cominciava a farmi un insopportabile solletico al fianco, proprio allora dissi addio ai miei sogni di gloria nei cieli.

Quando volavo


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