Delude anche il secondo film tratto dal libro «Lo Hobbit» di Gaetano Vallini Dopo il deludente primo capitolo della nuova trilogia tolkieniana firmata Peter Jackson, lungo e in gran parte noioso, con il secondo si sperava in un’opera migliore, più accattivante. Per la verità Lo Hobbit. La desolazione di Smaug qualcosa in più, almeno nell’azione e nell’atmosfera meno fiabesca e più dark, lo riserva allo spettatore, che però non si scrolla di dosso la sensazione che questo prequel de Il signore degli anelli continui a non essere all’altezza. Troppa differenza nei personaggi (ancora poco delineati), troppi passaggi a vuoto e un 3D con la tecnologia a 48 fotogrammi che anche stavolta, con il suo nitido iperrealismo, finisce per spogliare il racconto di quel necessario alone di epicità e mistero che sarebbe giusto attendersi da un film fantasy. Risultato: non si resta catturati né dalla storia né da alcuno dei protagonisti, e nemmeno troppo impazienti di conoscere come andrà a finire.Così come era avvenuto ne Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato, bisogna attendere l’ultima parte degli interminabili 161 minuti complessivi per arrivare al meglio del film. E se nel primo era stato l’incontro di Bilbo Baggins (Martin Freeman) con Gollum, al quale sottrae il famoso anello che cambierà la sua vita e segnerà quella degli abitanti della Terra di Mezzo, qui è il confronto tra il piccolo hobbit e il drago Smaug che si è impossessato del ricco Regno Nanico di Erebor. Dopo aver fronteggiato orchi e belve, attraversato il Bosco Atro nel territorio degli Elfi Silvani, Bilbo vi è giunto con tredici nani capeggiati da Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage), erede al trono di quel regno, e l’aiuto dello stregone Gandalf (Ian McKellen). Scopo del viaggio, liberare dal drago usurpatore la fortezza di Erebor con il suo immenso tesoro. Il tutto mentre Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor, sta ricompattando le sue malefiche schiere. Peccato che per lasciare spazio al terzo capitolo della nuova saga Jackson sia costretto a un finale che più monco non si può. Anche in questa pellicola il regista si limita a giocare facile puntando sul sicuro, ovvero su ingredienti già ben sperimentati, a partire dall’ineguagliabile ambientazione naturale della Nuova Zelanda e dai riferimenti ad altri scritti tolkieniani, in particolare a Il signore degli anelli, inesistenti nel libro ispiratore, per giustificarne questa nuova serie come prologo. E se è vero che tutto sembra funzionare discretamente — con alcune sequenze avvincenti e di grande impatto visivo, come quella che vede Gandalf fronteggiare Sauron nel tetro scenario di Dal Guldur — è anche vero che dall’uomo che ha ridato vita al genere fantasy con così tanta creatività e pathos (diciassette premi Oscar per la prima trilogia) ci si attenderebbe altro. Certamente qualcosa in più di enormi ragni che infestano una inestricabile foresta e di un improbabile, seppur spettacolare, combattimento durante una discesa in stile surf su botti di vino lungo le rapide di un fiume: praticamente un videogame. E la stessa invenzione del personaggio dell’elfa Tauriel (Evangeline Lilly), amata da Legolas (Orlando Bloom), nella sua infatuazione per uno dei nani appare fin troppo slegata dal racconto. Non per nulla nei testi di Tolkien non esiste. Chi ha apprezzato Un viaggio inaspettato — soprattutto gli affezionati della saga — probabilmente valuterà positivamente anche La desolazione di Smaug. Ma le perplessità suscitate lo scorso anno dal primo episodio restano pressoché identiche. Da questi due film se ne sarebbe potuto tranquillamente trarre uno solo, di qualità superiore. Ma il mercato parla una lingua diversa, e gli incassi confermano. Non resta che aspettare il terzo e ultimo capitolo per vedere se la pazienza sarà almeno ripagata da un finale degno.
Non si resta catturati né dalla storia né da alcuno dei protagonisti. E nemmeno troppo impazienti di conoscere come andrà a finire
(©L'Osservatore Romano – 19 dicembre 2013)
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