Era il 23 novembre 2006, quando a Tripoli (Libia) si incontrarono Giuliano Amato e Massimo D'Alema con il leader libico Moammar Gheddafi. Prima il ministro dell'Interno e poi quello degli Esteri sono stati ricevuti dal colonnello nella sua residenza a Bab Al Aziza, il complesso super blindato alla periferia di Tripoli.
Gheddafi, avvolto nella tradizionale tunica color amaranto, ha accolto i due esponenti italiani in modo piuttosto informale, come vecchi amici, alla fine del summit euro-africano sulle migrazioni che si è concluso oggi a Tripoli. Un "ottimo incontro", una "testimonianza del ruolo che la Libia riconosce all'Italia nello stesso concerto dell'Ue", ha detto Amato al termine dell'incontro durato circa mezz'ora…..Il numero uno della Farnesina ha detto che la Libia del colonnello Gheddafi è "fortemente impegnata nella battaglia contro il fondamentalismo islamico. Abbiamo parlato della necessità di una forte cooperazione tra Europa, Italia, Stati Uniti e di tutta la comunità internazionale e il mondo arabo per fermare il pericolo fondamentalista dove si manifesta compresi i paesi africani dove in questo momento l'islamismo sta guadagnando proseliti".
Proprio con un terrorista capo di stato potevano parlare di fermare il fondamentalismo mussulmano.
Tè nel deserto per Gheddafi e D’Alema il 3 dicembre 1999. "Una visita storica", secondo la definizione data dal Colonnello al primo viaggio del capo di un governo europeo a Tripoli dopo l' embargo deciso dall' Onu nel 1992. "Con la sospensione delle sanzioni si va verso una nuova epoca: noi vogliamo essere in prima fila nell' aprirla", è stato il commento di D' Alema alla fine di un incontro con Gheddafi durato oltre tre ore. Gheddafi dichiarava: "Questo incontro è possibile perché lei è al governo".
E D' Alema, pensandosi spiritoso: "Più l'Ulivo che è andato al governo".
Gheddafi: "Allora vuol dire che gli ulivi li avete presi di qui".
E cominciato così' , nel primo pomeriggio, il colloquio tra il ribelle che domina la Libia da decenni e il presidente del Consiglio italiano. Uno scambio di battute diplomatico, scherzoso e enigmatico al tempo stesso.
A prendere tempo, comunque, è D' Alema: "Quando deciderà di compiere un viaggio in un Paese occidentale, mi farebbe piacere che come primo Paese venisse in Italia. Non ho l'impressione che questa prospettiva sia immediata". Esistono, ha ricordato il presidente del Consiglio, anche "problemi di natura non bilaterale". La diffidenza americana?
D' Alema ha evitato di dirlo, ha preferito sottolineare "l'impegno della Libia contro il terrorismo" che sulla scena internazionale "viene valutato positivamente non solo da noi" e che, pur essendoci con i libici "anche punti di vista diversi", il dialogo va ripreso. Nel documento comune, l' Italia sancisce un giudizio positivo sul ruolo di Gheddafi "per la composizione dei conflitti" in Africa. Alla Libia, che chiede di astenersi da "politiche discriminatorie","Qui gli eroi nazionali sono stati giustiziati dagli italiani".
Parlare di eroi giustiziati da parte di un comunista, che ha le mani luride del sangue di oltre 100 milioni di individui martiri rasenta il ridicolo. Ma poi perché ha invitato un noto terrorista a fare una visita in Italia. Per studiare assieme un piano per una rivoluzione in sedicesimo?
Il centrosinistra strumentalizza i rapporti tra Italia e Libia per abbattere Berlusconi, ma è a Romano Prodi che Gheddafi si rivolse nel 2004: «Voglio esprimere la mia gratitudine a mio fratello Romano». E fu Prodi ad andare in Libia dal Colonnello l'8 settembre 2006; infine, il trattato di amicizia tra i nostri paesi è stato votato anche dal Pd, che si vanta di averlo auspicato fin dall’inizio.
Infatti sono i stati i governi Prodi, D'Alema e Amato a intraprendere senza esitazioni la strada della trattativa con Gheddafi, isolato internazionalmente dopo l'attentato di Lockerbie, e negli anni gli esponenti di quei governi e delle forze politiche che ne facevano parte si sono vantati della bontà delle loro iniziative. Gheddafi in persona sembrò apprezzarle quando il 27 aprile del 2004, nella prima visita in Europa dopo la fine dell’embargo Onu contro la Libia - riabilitata anche grazie agli sforzi compiuti dall’ex premier italiano - dichiarò rivolgendosi a Prodi, divenuto nel frattempo presidente della Commissione Ue: «Voglio esprimere la mia gratitudine a mio fratello Romano». E di rimando quello commentò: «Oggi è un grande giorno per l’Europa».
«La stampa straniera», sottolineò Giulio Santagata, stretto collaboratore dell'ex presidente ulivista del Consiglio «aveva bollato l’apertura di Prodi a Gheddafi come una iniziativa sconsiderata e incomprensibile, un passo falso. Oggi credo che qualcuno dovrebbe rendere merito alla lungimiranza di Prodi». Scrive livellino.it che “i buoni rapporti tra Tripoli e i governi italiani, compresi quelli di centrosinistra, conobbero un altro apice con la vittoria di misura ottenuta da Prodi contro Silvio Berlusconi nel 2006: Gheddafi chiamò il Professore per congratularsi, il neopremier ricambiò la cortesia con una visita in Libia datata 8 settembre. Quella sera Gheddafi offrì a Prodi una cena a base di montone e altre specialità locali, innaffiate con the alla menta, coca cola e birra analcolica”
Nel 2008, quando Berlusconi siglò a fine agosto con Gheddafi il trattato di amicizia italo-libica frutto di un lungo lavoro diplomatico, un ex fedelissimo di D’Alema come Marco Minniti avocò buona parte dei meriti alla sua parte politica: “Fu il governo Prodi il primo a dialogare con Gheddafi. E il primo ministro europeo a fargli visita ufficiale nel 1999 fu D’Alema”».
Il trattato di amicizia tra Italia e Libia, per chi lo avesse dimenticato, ha ottenuto anche il voto a favore del Pd, compreso il protocollo che regola il pattugliamento congiunto delle acque fra la Libia e la Sicilia per prevenire gli sbarchi di emigranti clandestini. E non a caso: l’intesa sulla materia era già stata firmata a Tripoli il 29 dicembre del 2007 da Massimo D'Alema, ministro degli Esteri dell'allora governo Prodi.
Nel giugno 2009, in occasione della prima visita ufficiale di Gheddafi in Italia, il Pd si è spaccato: la maggioranza dei senatori del gruppo non volle che il colonnello parlasse in Senato, ma Nicola Latorre, Massimo D'Alema e Franco Marini erano favorevoli. Poco prima della visita in Italia la Facoltà di Giurisprudenza dell'università di Sassari propose di conferire la laurea honoris causa in diritto a Gheddafi: a protestare fu il Partito Radicale; Giovanni Lobrano, il preside di facoltà che proponeva la laurea, è stato assessore degli Affari generali, del Personale e della Riforma nella Giunta regionale progressista (così allora si chiamava il centrosinistra) della Sardegna nel 1994-95. Gheddafi fu ospite dell'università La Sapienza durante il viaggio del 2009, quella stessa Sapienza che aveva l'anno prima visto l'anatema lanciato dai suoi docenti di sinistra contro Benedetto XVI perché non venisse in visita. E tante altre citazioni si potrebbero fare.
Dal sito del Partito Democratico PDNetwork del 30 agosto 2008 si legge che Silvio Berlusconi firma l’accordo con Tripoli per la chiusura dell’annosa questione dei nostri debiti nei confronti dell’ex colonia. Per lui, sembra un gioco da ragazzi. Peccato che il governo Prodi gli avesse già spianato la strada. Il contenzioso con Gheddafi era iniziato 25 anni fa, quando il leader libico aveva fatto una richiesta di risarcimento al nostro paese, per i danni lasciati dal colonialismo. Gheddafi da subito ha puntato in alto, giocando al rialzo e usando la leva dell’immigrazione. L’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema aveva fatto passi importanti per trovare un’intesa, a cominciare dall’ammissione degli orrori che hanno segnato i trent’anni della presenza italiana in Libia.
Commenta la vicenda anche il giornalista del Manifesto Valentino Parlato, nato e vissuto a Tripoli fino ai vent'anni. L’accordo, secondo il giornalista, «è un dovere morale. Gli italiani non sono mica stati gentili con la Libia, trent'anni di colonialismo sono costati migliaia di morti. L'eroe indipendentista, Omar Mukhtar, è stato impiccato in piazza. Ma quest'accordo – aggiunge – ha anche una sua convenienza economica. La Libia non è più lo Stato canaglia, i nostri rapporti commerciali sono stretti. L'Eni in Libia ha grossi interessi economici».
Ossia, non è Berlusconi l’amico innamorato di Gheddafi, ma la triade baffino-topo gigio-mortadella, che si sciolgono di fronte al criminale terrorista. E per condimento il Valentino Parlato ha parlato, come dice il suo cognome, per dire bestialità, come “La Libia non è più lo Stato canaglia”. Invece di Parlato a me sembra imbranato.
Oggi si fa una gran cagnara perché Berlusconi è «amico» di Gheddafi. La sinistra, come suo solito, affogata nel puro distillato di ipocrisia che la contraddistingue e si lamenta del fatto che questo Governo ha (avuto) rapporti cordiali e stretti con il Colonnello Gheddafi, oggi quasi deposto nel suo paese.
Prima di allora, i rapporti tra Italia e Libia non erano affatto buoni; chi non ricorda la vicenda di Sigonella negli anni ‘80? E ancor prima la cacciata degli italiani, quando Gheddafi salì al potere?
E dobbiamo ricordare ai signorotti indignati, che quando Berlusconi siglò il tratto Italia-Libia nel 2008, Marco Minniti (fedelissimo di D’Alema) non mancò di rammentare che buona parte dei meriti del felice epilogo fu del «governo Prodi»? «Il primo a dialogare con Gheddafi»? E che «il primo ministro europeo a fargli visita ufficiale nel 1999 fu D’Alema».
Insomma, perché oggi questo atteggiamento scandalizzato? Beh, la risposta è sempre la stessa: distorcere, mistificare, interpretare la realtà per sconfessare e denigrare l’avversario al Governo. Tecnica tipicamente utilizzata dalla sinistra che sfrutta determinati fatti (il caos nel Maghreb) più come le conviene, che come quei fatti effettivamente si svolgono o si sono svolti. Così è per i rapporti tra Gheddafi e il Governo italiano. Ma così è per qualsiasi altro argomento. Per fare un esempio che nulla c’entra con Gheddafi: se un tempo, la sinistra radical chic esaltava il noto programma cult degli anni ‘80, Drive In, oggi lo ritiene il simbolo dell’inizio della decadenza dei costumi italiani. Se un tempo, andare in giro con le tette al vento costituiva esempio chiaro e limpido di emancipazione femminile, oggi è considerato tipica decadenza del berlusconismo. In altre parole, tutto ciò che può essere usato contro il Premier, va bene. Anche rinnegare se stessi e quel che si è detto è fatto con convinzione.
Tornando comunque a Gheddafi, è chiaro che il tentativo malcelato di alcuni settori della sinistra giustizialista, mediatica e movimentista è di paragonare Berlusconi a Gheddafi e ai suoi colleghi dittatori, magari auspicando pure che le piazze prima o poi si sveglino pure da noi e mandino a casa il «Tiranno» di Arcore, salvo non arrivi prima qualche sentenza di condanna a risparmiar loro il lavoro. Un paragone chiaramente che non sta né in cielo né in terra, poiché c’è un’abissale differenza tra i paesi maghrebini e l’Italia. Il nostro paese è infatti una democrazia, e Berlusconi se sta a Palazzo Chigi non ci sta perché alcuni generali compiacenti dell’Esercito glielo hanno consegnato con i cannoni e i carri armati. Ma ci sta perché è il popolo ad averlo votato. Per cui, il paragone non solo è improponibile, ma è anche frutto di un’abissale ignoranza sulla differenza tra una dittatura e una democrazia. E se non è frutto dell’ignoranza, allora è frutto della nota capacità mistificatrice. In entrambi i casi, debbo ricordare a queste «cime» del ragionamento politico che l’Italia ha già ben pagato in termini di dittatura, e avrebbe pagato il doppio se al Governo ci fossero andati i loro stimati compagnucci. Che non sputino sulla democrazia in cui mangiano!
Da ilGiornale del 31 agosto 2010 Gheddafi viene in Italia e l’opposizione lo copre di fischi. Qualche tempo fa era lui a dirsi «fratello» di Romano Prodi e «amico» di Massimo D’Alema. Succede. È come vedere la tua fidanzata storica che si bacia con il tuo rivale. Tutta questa polverosa indignazione che l’opposizione di sinistra ha sollevato in questi giorni altro non è che gelosia. Muammar Gheddafi, fino al 2008, era praticamente «cosa loro». E oggi che il premier Silvio Berlusconi gli ha scalzati la sinistra s’indigna.
La sinistra italiana, dalla Bindi in giù, si spellava le mani dagli applausi per il grande lavoro dell’ex premier. «La stampa straniera - gongolò il fedelissimo di Prodi Giulio Santagata - aveva bollato l’apertura di Prodi a Gheddafi come una iniziativa sconsiderata e incomprensibile, un passo falso. Oggi credo che qualcuno dovrebbe rendere merito alla lungimiranza di Prodi». Persino l’allora ministro degli Esteri Lamberto Dini fu ricevuto due volte nella tenda. Lui, il Colonnello, era vestito con camicia e pantaloni verdi militari e un cappellino da ranger. E la prima domanda fu: «Come sta Prodi?». Finì, come sempre, che il titolare della Farnesina tornò in Italia con in tasca un altro accordo da 5,5 miliardi di dollari per la ricerca di gas naturale e un oleodotto da realizzare tra la società nazionale petrolifera libica e ovviamente l’Eni. A sinistra nulla da dire, allora.
E Massimo D’Alema? Ah, D’Alema, D’Alema. Uno che andava sotto braccio a Hezbollah tra le macerie di Beirut figurarsi se si è mai imbarazzato di fronte al leader libico. I due si dicono «amici», e Baffino in passato non ha nascosto di aver fatto al Colonnello un sacco di moine. Quando si decise di far processare in Olanda da un tribunale scozzese i due libici accusati dell’attentato contro il jumbo della Pan Am del 1998 (270 morti) a Lockerbie, fu un D’Alema raggiante a chiamarlo nella tenda per complimentarsi. E nel 1999, prima di rotolare rovinosamente per la debacle alle Regionali, si precipitò a invocare una pietra tombale sul passato colonialismo italiano in Libia «per rafforzare la cooperazione tra Tripoli e l’Italia» in chiave anti immigrazione e per portare un po’ di soldi libici in Italia. Insomma, quando si tratta di affari la sinistra tutti questi scrupoli sui diritti umani non se li è mai posti.
Della metamorfosi dalemiana al tempo si accorse persino il New York Times: «La visita di D’Alema in Libia evidenzia una recente priorità della politica estera italiana: proiettarsi, in fretta e per prima, verso i paesi petroliferi del Nord Africa e del Medio Oriente. Sembra molto probabile - aggiunse il Nyt - che il Colonnello Muammar Gheddafi visiterà l’Italia». «È presto», replicò Baffino a favore di telecamera mentre scendeva dal Falcon di ritorno dalla Libia.
Nel 2006 scoppiarono le violenze a Bengasi dopo la maglietta con le vignette anti-Islam mostrate dal leghista Roberto Calderoli al Tg1. Gheddafi, saggiamente, disse che quell’incidente non avrebbe compromesso i rapporti tra i due paesi. Parole apprezzate subito da un altro dei leader della sinistra di allora, Francesco Rutelli: «Un possibile governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi, sarà in grado di rendere credibili e concreti i progetti di cooperazione e di contribuire a chiudere ogni contenzioso e divergenza bilaterale». In effetti il Professore vinse per 20mila voti, Gheddafi lo chiamò per fargli gli auguri e Romano corse subito a incassare l’abbraccio del Colonnello. E sembra passato un secolo. Lui e Muammar a cena: menù a base di montone e altre specialità locali, il tutto innaffiato con thè alla menta, coca cola e birra analcolica, raccontano le cronache dei giornali.
E quando l’anno dopo scoppiò un piccolo giallo sulla sua salute, e si ipotizzò che il Colonnello fosse morto, chi sciolse l’enigma? Prodi. «Mi ha chiamato Muammar, sta bene». Detto da uno che quando vuole (vedi seduta spiritica durante il rapimento Moro) coi morti ci parla davvero fa ridere, ma questa è un’altra storia.
Con Prodi premier D’Alema si mise addosso la casacca della Farnesina. E il pensiero tornò a sette anni prima, al grande «gesto riparatore» solo sfiorato nel ’99: la costruzione dell’ormai famosa autostrada costiera da sei miliardi di euro tra Egitto e Tunisia da appaltare alle aziende italiane in cambio del mea culpa sulla tragica deportazione dei libici in Italia nel 1911-12. “È stata una pagina tragica e vergognosa», disse subito D’Alema, con la mano tesa. Miele per le orecchie di Gheddafi”. Il problema è che però quell’accordo lo firmò Berlusconi, il 30 agosto 2008, aprendo definitivamente la cassaforte libica alle imprese italiane. È allora che il Pd Marco Minniti s’infuriò. Con Gheddafi?
No, con Silvio l’ingrato: «Fu il governo Prodi il primo a dialogare con Gheddafi. E il primo ministro europeo a fargli visita ufficiale nel 1999 fu D’Alema». E pensare che dopo lo storico accordo l’ex premier Ds aveva bofonchiato ai suoi durante un comizio ad Alessandria, schiumando di rabbia: «Ci chiese un sacco di soldi e gli dissi di no, Berlusconi invece glieli ha dati subito. Tanto sono vostri». Era appena l’anno scorso, e già allora il Colonnello era fuori moda. Ultima chicca: uno dei figli di Gheddafi, Saif al-Islam, qualche tempo fa rivelò a Panorama: «Mi piace molto Berlusconi ma politicamente sono di sinistra: un socialista e non un conservatore. Quindi, solo per questo, preferisco D’Alema». E poi uno si stupisce perché si arrabbiano. di [email protected]
Veniamo ai giorni nostri e vediamo che Massimo D'Alema non si espone sui massacri libici e sul rais Gheddafi: «Bisogna chiedere a Gheddafi di fermare la repressione». Giusto e poi? come scrive Pino Corria ieri 21 febbraio 2011, e continua Se non ci fosse di mezzo il sangue dei massacri a Bengasi e nel resto della Libia in fiamme, ascoltare D’Alema che parla di Gheddafi, metterebbe come sempre di buon umore. Ecco la mente più lucida della sinistra che dichiara: «Bisogna chiedere a Gheddafi di fermare la repressione». Giusto e poi? Di abbassare le mitragliatrici? Di non far sparare razzi dagli elicotteri contro le manifestazioni di piazza? No, meglio: «Si deve incoraggiare Gheddafi a fare le riforme». Buona idea, non ci aveva pensato nessuno, a parte il popolo libico in rivolta. E poi: «C’è da sperare in una evoluzione positiva». Ottimo.
Anche questa volta Massimo D’Alema, il primo presidente del Consiglio ad avere ordinato ai nostri caccia di bombardare un Paese in guerra – la Serbia nel maggio del 1999 - si dimostra all’altezza della sua pusillanimità.