Pare sia stato lui a pronunciare il celebre “permettete” o, secondo un’altra versione, “permettete che vado”, con il quale, una sera, si congedò in piazza dal consueto gruppo di amici. Niente lasciava presagire che quella sarebbe stata la sua ultima notte in paese, prima della partenza per l’Argentina.
Come una fuga. “Dietro ogni soldato c’è una donna”. Forse, anche dietro qualche emigrante. Non che Ciccio non avesse, di suo, validi motivi per andare via. Ma chissà, il rifiuto di Peppina potrebbe averlo convinto a legare stretti i suoi ventisette anni dentro la valigia di cartone, per rinascere undicimila chilometri a sud, un mese più tardi.
Unico maschio, dopo tre bimbe, Ciccio era carbonaio, come Carmine, suo padre, e come Mico, suo cognato. Insieme a loro, alla fine della seconda guerra mondiale, si era trasferito a Morlupo, a spaccarsi la schiena nei lavori di bonifica dell’Agro romano. Ma per partorire, la moglie di Mico decise che ci voleva la “mammina” del paese, chiudendo così, d’imperio, la parentesi romana. Ciccio tornò alla carica con Peppina, che lo respinse nuovamente. Un altro buon motivo per mettere l’Oceano tra sé e la propria terra. Partì insieme al padre, con l’idea di fare qualche soldo e poi chiamare il resto della famiglia. Non fu però dello stesso avviso la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti e che decretò l’inabilità di Rosa, sua mamma, ormai quasi cieca per il tracoma.
Tempo e distanza possono essere alleati o nemici, fortificano o cancellano i sentimenti. In Argentina, padre e figlio iniziarono una nuova vita. Altrimenti non si spiega come neanche Carmine abbia sentito il bisogno di tornare a casa. E sì che, al tempo, aveva dovuto lottare come un leone per avere Rosa. A ripensarci, ancora sentiva il dolore alla testa e la puzza di piscio dovuti alla mira da cecchino della futura suocera, una sera che aveva insistito troppo con la serenata sotto la finestra e si era visto arrivare addosso un vaso da notte di ferro, ricolmo.
Quando ormai Ciccio si era dimenticato di Peppina, arrivò la repentina zampata del destino, che fece incontrare la ragazza con Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa aveva ancora in tasca una lettera e una foto del figlio, ormai un uomo di trent’anni. “È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei”, le parole, riportate da un’amica in confidenza con penna e calamaio sul foglio di quaderno che di lì a poco avrebbe solcato le onde del mare. Ciccio sembrava non aspettasse altro. Entro un paio di mesi fu celebrato il matrimonio per procura, quindi Peppina si imbarcò sulla nave che l’avrebbe portata dal marito.
Una storia a lieto fine, senza lieto fine e con due finali discordanti. Il primo: arrivata in Argentina, Peppina sorprese il marito con una donna, per cui rifece immediatamente un altro mese di viaggio, percorso inverso. Il secondo: Ciccio viveva in una stamberga, una situazione di degrado non accettata da Peppina, che mostrò immediatamente segni di squilibrio, si rifiutò di consumare il matrimonio e fu rispedita dalla madre.
Pazzia o vergogna, una volta rientrata in paese Peppina non uscì di casa per il resto dei suoi giorni, limitandosi a fare capolino da dietro una finestra, pronta a ritrarsi non appena incrociava lo sguardo di qualcuno. Ciccio seppellì il padre in Argentina e continuò a dare sporadiche notizie fino a quando sua madre fu in vita. Dopo, di lui, non si seppe più nulla.