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Esattamente quaranta anni fa divampava la rivolta a Reggio Calabria.Si sono versati fiumi di inchiostro su questo avvenimento, innescato dall'assegnazione del capoluogo di regione alla città di Catanzaro, ma soltanto da poco tempo si parla e si scrive con criticismo, verità e libertà, al riparo delle molteplici distorsioni storiche di cui è stata vittima la calda estate del 1970 in riva allo Stretto. A ben vedere, la causa profonda del malcontento non fu soltanto l'assegnazione del capoluogo regionale a Catanzaro; in realtà, tale direttiva venne percepita come l'ennesimo scippo ai danni del futuro e delle speranze dei Reggini. Dietro la scintilla dell'insurrezione c'era soltanto l'ira funesta di una città dimenticata dallo stato, vittima dei politici di mestiere, privata del suo passato e della sua identità.Nonostante tutto, la classe dirigente italiana e i mezzi di comunicazione nazionali bollarono la rivolta di Reggio come un tentativo di golpe fascista: un'accusa infondata – sebbene non mancarono certamente iniziative, talvolta violente, patrocinate dall'allora Movimento Sociale Italiano e da gruppi extra-parlamentari o affiliati alla criminalità organizzata, volte a strumentalizzare per fini politici i moti, anche se in seconda battuta rispetto allo scoppio della protesta popolare – il cui fine essenziale era soprattutto quello di defraudare i Reggini della spontaneità (almeno nei primi giorni della rivolta) e della legittimità delle loro rivendicazioni.Eppure, la maggioranza dei manifestanti, le centinaia di donne vestite di nero che scendevano in piazza coi faddali (grembiuli) sgualciti e sporchi di olio o farina, sapevano poco o nulla di destra e sinistra, di sindacalisti, burocrati e politicanti; si ribellavano, dolenti ed ardenti, all'ennesimo sgarbo, all'ultimo schiaffo inferto alla propria terra, all'eco secolare di un organismo statale che cercava di colmare i bisogni dei meridionali con la propria ingombrante assenza.E' il 13 Luglio 1970, il Consiglio Regionale si riunisce per la prima volta a Catanzaro: a Reggio, nel centro storico, esplode l'ira della folla, quell'ira tinta di disperazione ed irrazionalità che spesso contraddistingue il grido delle masse popolari in fermento.La televisione nazionale, incredibilmente ed inspiegabilmente, ignora l'episodio. Quando la voce dei Reggini diverrà troppo veemente, il premier Emilio Colombo invierà, fra luglio ed ottobre, ben undici mila soldati per reprimere la rivolta. Un leit-motiv al quale lo Stato Italiano ha ormai abituato gli uomini del Sud: quando, nei primi anni dopo l'Unità d'Italia, venne soffocato nel sangue il malcontento dei meridionali alle ruberie dell'ex Regno di Sardegna, gli organi di stampa ufficiali parlarono di “brigantaggio”. I “briganti”del 1970 saranno chiamati “fascisti”, ma il senso della scomunica è il medesimo.La situazione a Reggio non degenera in conflitto civile soprattutto grazie alla lungimiranza del questore Santillo, il quale proibisce decisamente di sparare sulla folla che assediava il suo palazzo. Tanto per fare un po' di ucronia (o “What if”, come viene chiamato tale genere letterario negli USA), tanto cara agli anglosassoni, possiamo facilmente immaginare cosa sarebbe potuto succedere a Reggio se insieme a Santillo si fosse trovato un Bava Beccaris, un Cialdini o un Alfonso La Marmora.Ma al di là delle barricate, delle molotov e delle sassaiole, cosa rappresentò, oggettivamente, la rivolta reggina?Nient'altro che una risposta, commprensibile anche se inconcludente, alle imbelli direttive promanate dalla classe politica dirigente dell'epoca, con la significativa inclusione dei rappresentanti calabresi, orientati insieme nella realizzazione della “trilogia della barzelletta”, quel tentativo, astorico e velleitario, di dividere la regione Calabria in tre grandi aree di sviluppo: a Catanzaro il capoluogo e gli annessi uffici, a Cosenza l'Università e il settore culturale, a Reggio le industrie ancora da inventare.La rabbia dei Reggini verrà sedata, come sempre accade dalle nostre parti, per mezzo del compromesso politico. Il governo promette migliaia di posti di lavoro, da ricavare attraverso l'edificazione di un centro siderurgico a Gioia Tauro e della tristemente celebre Liquilchimica di Saline; il primo non verrà mai costruito, la seconda non sarà mai operativa.Questo è il vero che si nasconde dietro la vicenda. Della rivolta non rimane che il ricordo o, chissà, il rimpianto; probabilmente, se paragoniamo il presente col passato, l'unica cosa rimasta invariata a Reggio è la povertà, presto tradottasi in indifferenza: una colpa non soltanto nostra.
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