“Quartet”, vecchiaia e modestia con brio nell’esordio alla regia di Dustin Hoffman

Creato il 13 febbraio 2013 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Se è vero che il tempo porta consiglio, allora Dustin Hoffman ha fatto bene ad aspettare il compimento del 75esimo anno di età per debuttare alla regia, e il consiglio ha dato buoni frutti. Perché Quartet è una godibile melodia filmica, elegante e composta, dal bel portamento e mai pacchiana. In scena ripicche e sgambetti, rimpianti e (vecchi) amori di un nutrito gruppo di ex musicisti over 65 confinati a Beecham House, casa di riposo e di musica. E’ qui che l’idilliaco feeling che lega il trio Reggie-Wilf-Cissy viene incrinato dall’arrivo della diva, Jean Horton, stella sempre brillante nel firmamento dell’Opera e ex moglie libertina di Reggie. Ma i dissapori si appianeranno, confluendo in un inevitabile lieto fine, grazie alla messinscena di un celebre passaggio del Rigoletto di Verdi rispolverato per una serata a pagamento dai nobili fini…

L’ex laureato Dustin Hoffman approda alla regia all’imbrunire della vita, in quel periodo in cui molti attori appendono il copione al chiodo. La mossa è saggia, ponderata, e il suo Quartet non punta a “sdoganare” con prodezze registiche atte a lasciare il segno. Quartet un’opera andante con brio, che alterna con misura ed equilibrio adagio e allegretto, proponendosi più come un piacevole movimento musicale che non una ridondante e rumorosa sinfonia. Moderazione è la parola d’ordine. Ma di quella che non accantona il divertimento, anzi. Pur con alcune inerzie, battute e risate si susseguono come scandite da un invisibile metronomo. A dare il La è sempre un incontenibile Billy Connolly. Al suo fianco la simpaticissima Pauline Collins, l’austero e gentile Tom Courtenay, la valida e intensa Maggie Smith. Di contorno il prezioso contributo in scena di veri ex cantanti d’Opera e strumentisti.

Che tutto sia disciplinato in un’aura di ricercata modestia lo conferma anche l’esibizione canora dei protagonisti, che non avviene in un luminescente teatrone da capitale europea, ma in una rabbuiata saletta interna alla casa di riposo. Anche la gloria è ormai “da camera”.

La sceneggiatura, derivata dalla pièce di Ronald Harwood, si ciba con semplicità delle ottime performance dei quattro attori, evitando particolari scrupoli o scavi psicologici dei personaggi. Lo spartito deve scorrere, possibilmente senza intoppi, in un rigoroso quattro quarti molto british, ma senza la puzza sotto al naso.

Pur non essendoci un volontario e premeditato messaggio di fondo, potremmo azzardare nell’intravedere dietro la non-chiusura di Beecham House un augurio di lunga vita alla musica classica, in particolare a quella italiana tenuta alta nel mondo da eminenti figure come Giuseppe Verdi. E pure una piccola “morale”: da vecchi si torna bambini, ma si diventa anche più saggi. Tanto da sotterrare ingrigite asce di guerra di vita (mal)vissuta per guardare avanti spinti dal motto “meglio tardi che mai” (valido anche per ri-sposarsi).

Battuta memorabile: “Ma li lasci fumare in pace! Tanto smettere a cosa li porterà? A vivere una settimana in più, e come minimo quella settimana piove”.

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