In effetti la storia del nostro giornalismo ha origini diverse da quelle anglosassoni, culla dell’informazione corretta, con i fatti separati dalle opinioni e la citazione delle fonti e da quella tipologia di giornalista americano che non si piegò al sensazionalismo e ai gusti del “grande pubblico”, mantenendo sempre il distacco dell’osservatore. Ancora prima che la televisione nascesse, la politica e lo Stato sapevano già scontarsi, senza i faccia a faccia o le urla ma utilizzando durissime parole scritte con le quali si argomentavano le opinioni per spiegare, da fronti opposti la propria verità. Duelli appassionanti nei giornali di partito (ognuno avveva il suo ) che utilizzavano la dialettica politica per dettare la linea ai militanti e ai simpatizzanti. Il Popolo, l’Avanti, La Voce Repubblicana, Il Secolo d’Italia, per citarne qualcuno, di quelle gloriose testate, poche si sono salvate, offuscate dai tempi a da esigenze contemporanee differenti. Ma le radici dell’influenza del potere affonda ancora più lontano. Il giornalismo dell’800 è già un giornalismo di potere politico che si raccoglie attorno ai gruppi, alle élite, prima ancora dell’Unità d’Italia.
Il problema tocca più da vicino il nostro giornalismo quando si è assoggettato al potere per non “disturbare i governi”, perché il sistema politico italiano ha un ‘autorità legale molto bassa “per questo crea un sistema per il quale per un giornalista è importante far parte comunque del gruppo. Al di fuori di particolari fasi storiche o di casi molto specifici, quasi mai i giornalisti italiani sono riusciti a rivendicare concrete forme d’indipendenza o controllo sulle testate in cui lavoravano. E anche quando hanno ottenuto – sotto il fascismo – l’istituzione dell’albo (vale a dire di uno status di professionalizzazione e quindi di autonomia teoricamente elevato, al pari di quello di un medico o di un avvocato), hanno poi dovuto pagare il prezzo della perdita di qualsiasi pretesa d’indipendenza, ponendosi al servizio degli interessi politici del regime. In Italia non esitono editori puri, c’è il problema della proprietà, se l’editore è un costruttore di automobili è difficile che possano comparire grosse critiche su quel giornale a una certa marca di automobile”.
Inevitabile che un giornalista abbia le sue idee e che esse trapelino nelle sue parole e servano anche per interpretare i fatti però, i fatti sono una cosa e l’interpretazione è tutt’altra.
Ma allora dov’è la libertà di stampa?
Impossibile da trovare visto che la nostra storia ci rimanda già ad un lungo processo dove i primi governanti dell’appena nata Unità erano intimoriti da quello che sarebbe potuto succedere dopo l’Unità. Il paese era appena stato creato, tutto era ancora precario, eccetto la paura dei giornali che, al contrario, era concreta, come concreto era il modo per controllarli, da li inizia una lunga tradizione di ingerenza del potere politico, economico e finanziario...
I programmi televisivi e il materiale prodotto nella rete hanno ormai finito per influenzare profondamente i contenuti dei giornali, che da tempo hanno dovuto ripensare il proprio linguaggio e il proprio aspetto. Vero è che non tutti i giornali scrivono le stesse cose e che i giornalisti hanno le stesse autorevolezze ma l’obiettività non può esistere e i giornali rivelano la loro anima. La mancanza di obiettività inizia dalla gerarchia delle notizie, quelle che “contano” in prima pagina il resto a scendere, ma chi decide la loro importanza ?
Resto comunque convinta che a fare la differenza siano i contenuti espressi attraverso i mezzi. Tutto sta nell’interpretarli.