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Quarto potere di Orson Welles. Non basta una parola sola per definire un uomo
Creato il 10 luglio 2011 da SpaceoddityQuanto il diversissimo L'angelo azzurro, europeo nell'anima più ancora che nella produzione, l'americanissimo Citizen Kane è un film di una crudeltà inimmaginabile: trasuda dolore, solitudine, disillusione. Storia della ricerca di un senso, di una formula che mondi possa aprirti, del senso di una vita e di una morte, Quarto potere, oltre a essere stato giudicato dall'American Film Institut uno dei più bei film mai realizzati, è anche l'esito di una coscienza multimediale capace di superare i tempi. Orson Welles propone in questo suo primo lungometraggio, una ricostruzione a cui sfugge ogni senso di verità, nonostante dichiarazioni programmatiche e accesso diretto alle fonti delle notizie. Per essere un po' più precisi, Citizen Kane è la dimostrazione di un assioma giornalistico ribaltato: se si dice che i fatti non sono ancora notizie, questo film dimostra una volta di più che le notizie e i proclami non sono fatti (e non si avvicinano neanche a esserlo).
Come nel famosissimo adattamento radiofonico de La guerra dei mondi di H. G. Wells (1938), che aveva scatenato il panico tra gli Americani, convinti di essere vittime di un attacco dei marziani, anche qui i mezzi di comunicazione sono strumento per creare una verità. Tale "verità" poggia sulla debolezza dei fruitori di questi stessi mezzi, ma soprattutto sull'anomalo isolamento culturale e, in senso lato, spirituale dell'uomo americano, vittima del suo sogno di crescita e di potenza quanto del brusco e violentissimo risveglio degli anni '30. Quello fu forse, a dire il vero, e a leggere la letteratura americana di quegli anni, un sussulto, più che un risveglio: fu un incubo a volume troppo alto che contribuì ad alienare ulteriormente gli animi di una nazione essenzialmente di provincia, drogata dalla sua stessa caduta (esemplare ne è la drammaturgia dolorosissima di un Tennessee Williams).
Citizen Kane porta con sé gli umori di un mondo che cambia e si avvia verso la catastrofe. La parola slegata dal suo significato, dal suo valore predittivo e da quello essenziale, la comunicazione; le immagini distorte, escheriane, le prospettive disallineate; il moltiplicarsi delle cornici in una fotografia allucinata, fatta di rumori, ma parallela a un dialogo freddo, professionale, nonostante l'alternarsi di volumi che alluderebbero all'intimità di un discorso spiattellato poi davanti agli spettatori. E infine, nel ritorno alla morte di Charles Foster Kane, quel trasparente rimando a un set cinematografico (e dunque, almeno in parte, autobiografico?), l'inventario dei pezzi di una ricchezza favolosa, inspiegabile e soprattutto non padroneggiabile: un patrimonio di cui il possessore aveva perso il conto e il senso.
Quarto potere, tradotto una volta tanto con un suo senso preciso in italiano, è, in effetti, un film sul potere e sul suo contraltare, l'impotenza esistenziale. Definito da Borges al suo uscire un "giallo metafisico", Citizen Kane anticipa in modo perfetto quella parabolla postbellica del Macbeth che Orson Welles avrebbe presentato nel 1948, senza quello straziante grido espressionista incorniciato da buio che permea quella grandiosa riscrittura shakespeariana. Qui, il contraltare poetico è il più misterioso e romantico Samuel Taylor Coleridge, che dà voce, anima e materia onirica alla costruzione di un palazzo incantato... il castello di Xanadu. Giocando con le parole, con i suoni, con le forme, Orson Welles trasforma l'orgogliosissimo cittadino americano, democratico e liberale, George Foster Kane, nel monarca assoluto di un regno mitico di solitudine e lontananza d'altri tempi: il Kublai Khan.
Ed è anche in questa veste che Quarto potere trova il suo posto nella storia del cinema americano.
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