Quasi a bruciapelo
Creato il 23 agosto 2011 da Malvino
Ogni definizione di verità è una tautologia. Tautologia più o meno manifesta, ma tautologia. Si va dalla tautologia dichiarata tale col definirla “l’essere vero” (De Mauro) o “ciò che è vero” (Treccani), a quella che va in cortocircuito con un termine facente funzione di sinonimo, per più con realtà, e allora la verità diventa la “aderenza alla realtà” (Palazzi) o la “rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva” (Devoto-Oli) o, ancora, la “conformità a una realtà obiettiva” (Treccani), dove questa realtà rimanda inevitabilmente al vero, in quanto “qualità e condizione di ciò che è veramente” (Palazzi).Quando dal tentare di definire la verità si passa ad analizzare le sue accezioni in ambito filosofico e scientifico, teologico e linguistico, logico e psicologico, le cose non vanno meglio, perché “non c’è una definizione univoca su cui la maggior parte dei filosofi di professione e gli studiosi concordino, e varie teorie e punti di vista della verità continuano ad essere discussi” (Wikipedia), e perché in ciascun ambito il termine va assumere un significato che risulta inservibile in un altro. Si prenda, per esempio, il significato di verità per un teologo come Tommaso, che la ritiene coincidente all’essere e in pratica assimilabile a Dio: sarà accezione praticamente inservibile per un epistemologo come Peirce, che la ritiene il risultato di un accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo. Oppure si prenda il suo significato per un matematico come Gödel, per il quale non tutto ciò che è vero è anche dimostrabile: del tutto incompatibile con la definizione che di verità darà un logico come Frege, secondo il quale il vero è categoria illusoria.Non va meglio neppure trasferendo interamente il vero al reale, per tenercelo, perché la realtà è maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi qualitativamente e quantitativamente assoluta e tradursi in conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà sarà comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che non può mai tradursi in conoscenza assoluta.È in questo punto, che poi è quello dove ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il vero al di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e che la verità sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una verità assoluta, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi assai opinabili, assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, tutto illusorio.A tal riguardo c’è chi ha fatto una proposta ragionevole: “Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo sempre la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta dovrebbe essere la tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa per tutti. Quindi, mentre essa rappresenta una buona guida per la condotta individuale, l’imposizione di questa condotta a tutti sarebbe un’insopportabile interferenza nella libertà di coscienza di ciascuno”. Un fanatico gli ha sparato in pieno petto, quasi a bruciapelo.
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