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quattro domande a Andrea Raos su poesia e traduzione

Creato il 01 luglio 2015 da Vivianascarinci

Di seguito un testo di Andrea Raos andatosi a comporre in questi mesi sulla base di alcune domande che gli ho posto in merito alla sua poesia e alla attività di traduzione. A monte c’era e resta l’idea di approfondire i contenuti della sua produzione attraverso il mio lavoro di scrittura. Avevo già espresso il desiderio di tornare a concentrarmi sulla poesia vista da un’ottica assolutamente personale e perciò riprendo nella mia intenzione anche attraverso questo dialogo.


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Andrea Raos nasce a Tradate nel 1968


V.S. Che ne è ora di quell’elemento improvvisativo che hai nominato altrove come importante ai tempi della scrittura di Lettere nere, quello che, se capisco bene, è stato il motivo o il motore di una reazione a scompaginare la tua primissima formazione di poeta? Che c’era nell’improvvisazione di così rivelatorio allora per te?

A.R. Sono convinto che ogni artista, di fondo, pensi il proprio lavoro per coppie oppositive rispetto a qualcos’altro: il compositore magari pensa per immagini, il pittore per narrazioni, il poeta per ritmi / melodie. Come se ogni forma d’arte nascesse dalla mancanza o la nostalgia di altre forme espressive. Questo naturalmente vuole anche dire che, di solito, si crea più per sottrazione ed esclusione, che per aggiunta.
Quindi, tu mi chiedi della “improvvisazione”, e questo è un termine musicale per eccellenza, che si può utilizzare riguardo alla scrittura, sembrerebbe, solo per analogia. Dico “sembrerebbe” perché un ambito in cui l’improvvisazione è ben più comune che nella musica è, per esempio, il discorso: e’ difficile che si parli con qualcuno sapendo già nei minimi dettagli cosa si dirà, e come…

E difatti, penso che il mio obiettivo all’epoca fosse quello di strappare la mia poesia alle “regole” (auto)imposte. Non per distruggere tutto (anche se all’epoca mi sarebbe senz’altro piaciuto distruggere interamente me stesso, e forse avrei dovuto farlo), ma per aprire il più possibile lo scrivere a nuove possibilità. Quelle offerte dal linguaggio comune, per esempio – “comune” sia nel senso di “ordinario” che di “condiviso”.
Forse cominciavo solo allora a vagamente intuire – per dirlo in modo un po’ altisonante -, lo splendore e la terribilità del mondo (qui parafraso una mia vecchia poesia che non e’ in Lettere nere), e a questi ritenevo di dovermi aprire.
Cosa ho visto, da questo spiraglio? Suppongo sia questo che intendi quando mi chiedi cosa ci sia stato di “rivelatorio”.
Non sono in grado di rispondere in modo diretto.
Ma posso almeno dire che il libro è traversato da una faglia sotterranea che è la morte di mio padre. Le sezioni non sono disposte in ordine cronologico, ma ti potrei dire quali testi sono stati scritti “prima” e quali “dopo”.
Mi trovavo molto lontano da lui quando accadde, e mi pare che questa distanza abbia assunto un valore strutturale. C’è in Lettere nere una vasta zona di silenzio che è costituita da poesie che ho fatto confluire in un altro libro (questo punto provo a spiegarlo meglio nel paragrafo qui sotto). Anche i circa 15 anni che ci ho messo per pubblicare questo libro, benché dovuti alla completa indifferenza con cui il libro è sempre stato accolto dagli editori a cui a varie riprese l’ho sottoposto, a livello personale mi sembra adesso che rispecchino, che abbiano “agito”, quel lungo viaggio che compii per raggiungere il luogo dove si tenne il funerale.

A quell’evento reagii in due modi diversi, in due diverse fasi.

A una prima fase di dolore più sordo e rattenuto (con una certa parte di rifiuto della presa d’atto) corrisponde una serie di poesie credo piuttosto tradizionali e che mi ero sforzato di rendere il più possibile composte e concentrate. Queste decisi di non metterli in Lettere nere, forse perché sentivo che ne avrebbero spezzato l’unità tonale. Sono diventate “Distruzione, eco”, la seconda parte di Aspettami, dice. A queste brevi sequenze, in particolare a “Carola d’acqua”, sono ancora molto affezionato.

Altri invece, decisamente più “esplosi”, li scrissi molto più tardi. Quello che mi sembra più riuscito è la prosa che chiude Lettere nere.

V.S. Abbiamo parlato dell’improvvisazione come di qualcosa che in parte in poesia, come in musica, si applica perché il linguaggio poetico è portato a attuarsi nel gesto della scrittura, come per il musicista l’atto di suonare, senza cioè riferirsi a un suono che prima c’era o era espresso in quei termini. Ma c’è anche un lavoro che non è di improvvisazione vera e propria, da cui il poeta viene informato linguisticamente rispetto ciò che prima era il vuoto o il silenzio. Le api migratori per esempio a me appare anche un libro che presuppone ciò, oltre che trasparire un’organizzazione capillare e, a monte, un controllo serrato della forma. Come concili questi due aspetti che sono entrambi presenti nella tua poesia, quello dell’improvvisazione, estesa a quanto detto sopra, e quello del controllo?

A.R. Mi interessano molto i due aspetti di cui parli, anche se non saprei dirti come li “concilio”. Non sono nemmeno sicuro che sia proprio necessario conciliare tutto a ogni costo.
In ogni caso, scrivendo le Api ho cercato di esplorarli entrambi.

Mi fa piacere che si noti il controllo della forma, perché in effetti avevo cercato di starci attento. Primo obbligo che mi ero dato: solo versi. Mentre nei miei libri precedenti avevo sempre, in varia misura, mischiato versi e prosa, le Api avevo deciso che sarebbe stato mi ero imposto che ci fossero solo versi. Avevo deciso di fare un libro di poesia tradizionale!

Legato a questo c’è un dettaglio importante forse solo per me, cioè che la prima parola del libro è “terra”: la stessa che apre Discendere il fiume calmo, il mio primo libro – che a sua volta si apre con la prima poesia decente che mi sembrava di avere scritto.
Il decidere di scrivere solo in versi e quella parola in particolare per me volevano rappresentare una specie di ritorno alle origini insomma, o un tentativo di nuovo inizio. Reinventarmi, rinascita. Forse anche questo è legato all’esperienza del lutto di cui parlavo prima.

Poi il libro poco a poco si è dischiuso finché non si è messo a farsi da solo. Diverse parti non ricordo di averle scritte. Ed è così che quello che in origine doveva essere una fiaba per bambini, vagamente richiestami da un piccolo editore, è diventato quella cosa lì.
Ha una forma a imbuto, o a piramide rovesciata: parte molto “largo”, con un verso lunghissimo, per poi restringersi fino a chiudersi una una parola sola, un monosillabo.
All’interno di questo imbuto succedono varie cose: esplosioni sonore molto compresse, o all’opposto rime a 10 pagine di distanza l’una dall’altra, errori di sintassi e altro, pioggie torrenziali, fiori che sbocciano dove meno te li aspetti. Un po’ come quando da bambino mi portavano a camminare per le Alpi, e da dovunque poteva all’improvviso spuntare qualunque cosa: un banco di nebbia, una stella alpina, una vipera (una volta ne guardai una adulta, molto grossa, marrone scuro, bellissima, passarmi tra i piedi per una lunga manciata di secondi. Ma i rettili non mi hanno mai fatto paura. Decisi di non raccontarlo ai miei perché sapevo che si sarebbero spaventati loro!), un ghiacciaio.
Ho cercato di creare uno spazio in cui tutto può accadere, perchè credo che la poesia lo meriti e sia ancora uno dei migliori strumenti di libertà che abbiamo – a condizione di non mortificarla nella ripetizione del già detto, lasciandola invece aperta all’inatteso.

Del resto, se pensi a quanto è giovane l’umanità rispetto alle galassie, a quanto è niente, ci rendiamo conto che le possibilità future della scrittura – o di quello che sarà – sono sconfinate, perchè davvero abbiamo a malapena iniziato. Chissà se nella nostra ridicolaggine e piccolezza verremo un giorno cantati dai pianeti, magari in un poema satirico su questo piccolo popolo che aveva un pianeta meraviglioso e l’ha ucciso. Un po’ come noi barbaramente sorridiamo degli antichi abitanti dell’isola di Pasqua.
La galassia è la nostra forma e i nostri pochi momenti di vita (il nostro “tempo degli insetti”), da mattina a sera, sono il bene e il male che improvvisiamo.

V.S. Oggettivare l’io tra le cose a scapito della soggettività, per via ad esempio, di una reazione contraria al lirismo, non mette al rischio qualcosa di cui varrebbe la pena conservare e interiorizzare almeno il ricordo?

A.R. Inizio a risponderti con un esempio tratto dalla poesia giapponese classica.
Quando si dice “io” in poesia si pensa spesso a un soggetto statico, uno sguardo fisso. Chi dice “io” dice per prima cosa una collocazione nello spazio, a partire da cui si ritaglia lo sguardo: si decide in che direzione guardare, cosa vedere, in quale momento del giorno o della notte, per quanto tempo.
Dunque un io che si sposta, che muta spazio e tempo, che si rende poroso e modifica anche ciò che lo circonda, è molto diverso da un io statico, che reitera costantemente il proprio punto di vista sulle cose e da esse è definito (anche nel senso di delimitato) sempre nello stesso modo.
Bene. Adesso, Viviana, leggi per favore questa poesia di Taira no Kanemori, un poeta giapponese vissuto nel X secolo. È una poesia molto famosa, centrale nel canone giapponese classico:
shinoburedo / ironiidenikeri / wagakohiha // monoyaomohuto / hitonotohumade

Volevo nasconderla
ma ormai me la si legge in faccia,
la mia passione,
a tal punto che mi chiedono
“sei forse innamorato?”

Considerala una poesia semplice e piana, l’espressione diretta e priva di particolari artifici retorici di un sentimento, perché in quanto tale è stata tramandata nelle epoche successive.
E adesso leggi questa, un po’ meno nota della prima, scritta circa due secoli dopo da Kujō Yoshitsune (o Ryōkei). Puoi considerarla una ripresa con variazioni di quella di Kanemori:

hitotohaba / ikaniihiteka / nagamemashi // kimigaatari no / yuhugurenosora

Se me lo chiedessero,
non sapendo cosa rispondere
fisserei lo sguardo in un unico punto –
là da dove devi giungere
il cielo al crepuscolo.

Diverse cose ci sarebbero da dire ma adesso vorrei concentrarmi su un punto specifico: Yoshitsune, riprendendo Kanemori, sposta lo spaziotempo della poesia a un attimo prima che venga pronunciata la fatidica domanda: “sei innamorato?”. Dunque l’intera scena viene sottratta al piano della realtà e diviene ipotetica, sognata.
Non c’è niente di soggettivo nell’immagine finale del cielo al crepuscolo, che al contrario viene enunciato come un puro dato di fatto; ma è il dato di fatto di un’attesa (l’amante che ancora non arriva) e il dato di fatto di un immaginare lo scandalo che potrebbe nascere qualora l’amante arrivasse. E questi sono tutti interni alla mente del soggetto enunciante della poesia.

Oppure è questo soggetto enunciante che nell’ultimo verso è strappato a sé e dissolto nelle cose, nello spazio esterno, prossimo a scomparire non appena si sarà fatto buio? Lascio a te decidere.

Queste poesie giapponesi le ho citate perché il procedimento che le fonda è stato molto importante per me negli anni passati, in particolare mentre scrivevo le Api. La relazione tra le due cose forse non sembra così ovvia, ma scrivere la mia tesi di dottorato aveva voluto dire esercitarmi per anni a guardare le poesie prima di leggerle, e questo credo che mi abbia cambiato molto.

Leggendo poesia giapponese classica penso di avere imparato qualcosa sulla spazializzazione dei testi e sull’arte dell’allusione e dell’eco a distanza. Nelle Api ci sono riferimenti a volte a decine di pagine l’uno dall’altro; così facendo cercavo di riflettere in maniera lineare qualcosa di analogo ai rapporti diacronici fra poesie che studiavo in quegli anni. È una diffrazione diacronica che però va a collocarsi anche nella modalità di percezione del mondo circostante da parte del soggetto; un infrangerne i limiti e sparpagliarsi nel tempo e nello spazio.

Una declinazione più recente di questa diffrazione secondo me è quella delle scritture della catastrofe. Penso in questo caso a due libri in realtà molto diversi, Olocausto di Reznikoff, del 1975 (che come sai diversi anni fa avevo tradotto e che è stato da poco pubblicato da Benway Series) e uno più recente che mi ha molto colpito, Zong! di M. NourbeSe Philips, uscito nel 2008 (il titolo intero è Zong!, as told to the author by Setaey Adamu Boateng). È un libro basato su una storia che non conoscevo per nulla, e che trovi raccontata ad esempio qui:
https://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_della_Zong.

Queste due tragedie collettive sono rappresentate in modi molto diversi. Reznikoff si affida a una scrittura documentaria, consistente in una trascrizione con modifiche – di solito minime, ma sempre significative – degli atti del processo di Norimberga e di altri documenti giudiziari. Delinea piccole individualità, storie singole. Il suo obiettivo mi sembra sia riaffermare il valore delle esistenze singole contro lo strapotere della macchina di sterminio; i rari momenti corali del libro, in cui si dice “noi”, sono quelli in cui sono i nazisti a prendere la parola. Quindi qui abbiamo una serie di voci singole che proprio perché tali rappresentano una collettività capace di sopravvivere alla massa indistinta e malefica dei persecutori.

M. NourbeSe Philips invece vuole riportare alla luce e alla memoria gli schiavi buttati in mare, ovvero riesumarli. Ma qui incontra subito un problema, perché “riesumare” alla lettera significa “estrarre dalla terra”; ma questi schiavi invece sono morti annegati. Come si fa a “riesacquarli”? Come si può compiere questa operazione di pietà facendo leva su una parola che non esiste? Da qui parte una riflessione sull’impossibilità del “fare memoria” e del “raccontare una storia” se non tramite il non raccontarla: il silenzio, il vuoto e il margine bianco della pagina sono gli unici strumenti a disposizione.

Una coincidenza che io trovo interessante è che sia Reznikoff sia NourbeSe Philips sono avvocati. Come se entrambi si fossero chiesti cosa sia giusto scrivere, come in eco al dire il vero di Giuliano Mesa. Quindi hai in Reznikoff una narrazione corale compiuta dai sopravvissuti; in NourbeSe Philips, quel discorso incomprensibile e e strozzato che deriva dall’affrontare in pieno il paradosso del dare voce ai morti nonché, più in profondità ancora, dell’affidare a loro la scrittura della Storia anziché ai vincitori, i vivi, senza mediazioni o filtri che sarebbero comunque strumenti dell’oppressore, del dominante, cioè che prolunghrebbero ancora, per motivi bassamente estetici, lo strazio indicibile della loro morte assurda. Nota che NourbeSe Philips, come anche Reznikoff, e nonostante gli esiti sulla pagina diametralmente opposti, si basa esclusivamente sugli atti del processo agli attori coinvolti nel massacro della Zong, uniche parole giunte sino a noi – e del resto, cos’altro potrebbe mai giungere? – di quella tragedia. Ma Philips strappa queste parole ai vincitori da cui sono state pronunciate e, letteralmente, le affonda nell’acqua del mare per mandarle a recuperare e “salvare” le loro antiche vittime.

Per tentare di ricollegarmi almeno vagamente alla tua domanda iniziale, e scusa se ancora una volta ti rispondo con un interrogativo a cui lascio a te la risposta, potremmo insomma chiederci che differenza c’è, se c’è, tra la voce di un io vivo e quella di un io morto.

*

Vorrei aggiungere ancora una cosa. Avevo cominciato a rispondere alla tua domanda parlando della posizione dell’io nello spazio. Ora, chi dice collocazione spaziale dice anche una collocazione geografica, sociale, politica. Questa può o essere in accordo con le coordinate dominanti, o porsi in opposizione o in differenziale, di sghimbescio, rispetto a queste.

D’altra parte, l’altra sera leggevo i commenti di Dom Sylvester Houedard (che nelle pause della poesia verbovisiva combinava anche di queste cose) ai sermoni di Eckhart. Parlava del distacco da sé e diceva in sostanza che più abbandoni te stesso (per unirti a dio), più ritrovi te stesso in ciò che fai, perché sei proprio tu che compi questo abbandono.
Quindi, più che guardare quanto io c’è in una poesia e quanto vi è affermato o negato, forse potrebbe essere interessante guardare invece se e quanto questa riesce a porsi in movimento di diaspora: al tempo stesso dispersa e seminata, come le spore.

V.S. Immagina con la tua esperienza di adesso, un ipotetico approccio iniziale a una poesia scritta in un’altra lingua. Mai letta prima. Di un poeta che non hai ancora approfondito. In questa prima fase, per il poeta che sta traducendo (tu) non c’è solo il “problema” della comprensione ma credo anche una risposta interiore d’altro segno che attinge forse a un codice istintivo personale, per indicare, magari senza volerlo, una riconoscibilità tua come chiave di lettura di quella poesia scritta nell’altra lingua e da un altro. Ti risulta che questo avvenga? Se avviene, come lo utilizzi perché sia un valore aggiunto alla tua traduzione e non una forzatura? Se questo non avviene, che succede invece al momento di quella prima fatidica lettura di un poeta sconosciuto?

A.R. Non ho mai tradotto per lavoro o su commissione (tranne un po’ per la tesi di dottorato, e quindi con uno spirito particolare, in quella strana esperienza che fu tradurre dalla giapponese classico in francese). Quindi tutte le mie traduzioni sono sempre state solo l’estensione sensibile dei miei processi di lettura – e di conseguenza anche di scrittura.

In pratica, quello che succede è che quando leggo in una lingua straniera qualcosa che mi colpisce – di solito si tratta di poesia, ma non sempre – subito mi ritrovo a pensare a come potrebbe suonare in italiano. Con il tempo, credo di aver capito che le cose che mi viene voglia di tradurre sono quelle che voglio imparare in quanto scrittore. Detta così potrebbe sembrare una specie di palestra, e in effetti in parte forse è vero. Ma naturalmente non ho tradotto Reznikoff, per dirne uno, per divertimento o per esibire i muscoli. Piuttosto, è che mi interessa molto il vuoto interstellare che esiste tra le lingue.

In effetti, a volte mi capita di tradurre mentalmente, o di provare a immaginare il risultato, anche quando sto leggendo in italiano. Prendo una frase e me la faccio risuonare in testa in una delle lingue che più o meno conosco.

Questo dipenderà forse dal fatto che anni fa mi è capitato, per esempio, di tradurre in francese Fortini, Balestrini e occasionalmente me stesso, così come mi è accaduta, quando ero ancora artisticamente molto giovane, l’esperienza affascinante di vedermi tradotto da un gruppo di poeti molto più bravi e esperti di me (il risultato è Luna velata).

È come se attraverso queste esperienze si fosse spezzato in me il legame “magico” con la lingua cosiddetta materna. Non è stato un processo facile, almeno nel mio caso. Tradurre per me è un fatto essenzialmente di nostalgia, di vuoto e di dolore. È un’esperienza che ho vissuto in diversi paesi e attraverso diverse lingue – la più forte forse in Giappone, dove di giorno leggevo decine e decine di pagine senza capire – non esagero – una sola parola, con i sensi attutiti dalla morte di mio padre e come rinchiuso in una bolla di silenzio dovuta al non capire se non con un estremo sforzo di concentrazione per il quale non avevo forze le parole che fluttuavano intorno a me, e la sera la costruzione dolcissima e paziente di una lingua d’amore a edificare un legame che poi non sono stato in grado di reggere perché spaventato, lo capisco solo ora, dall’impossibile bellezza di ciò che avevamo costruito, in quello che è stato per paradosso uno dei periodi più intensi e felici della mia vita.

Di fondo, forse il dolore di cui parlo è quello dell’incontro con il mondo. Da questo punto di vista mi è capitato di osservare, forse sbagliando, che fra gli scrittori ci sono due tipi fondamentali di lettori. I primi sono quelli che leggono gli altri per trovare sé stessi. Come a carpire certezze o conferme in merito al proprio lavoro e alla propria “poetica”. È un bisogno di appropriazione. Non sto per forza criticando questo atteggiamento perché a volte percorrendo questa strada si dicono anche cose intelligenti, e del resto è la strada più comune, quella che si percorre per arrivare a una forma di riconoscimento e, in ultima analisi, di pacificazione. Ho notato spesso che più la cultura è lontana più questo fenomeno si fa pronunciato. Ci vogliono polmoni robusti e una buona dose di abnegazione per affrontare il vuoto cosmico della lettura di un poeta giapponese o nigeriano senza volere per prima cosa “farlo proprio”. È un problema che in società maschiocentriche si pone anche nella lettura degli scrittori donne, che non a caso faticano molto a entrare nel canone – ed è un problema che si pone anche nella direzione inversa, dalla cosiddetta periferia al cosiddetto centro. Tante difficoltà di comprensione del significato ultimo di Omero o di Shakespeare da parte delle culture “periferiche”, con le conseguenze anche politiche che leggiamo ogni giorno sui giornali, sono legate almeno in parte a questa stessa mancanza di fiato. Perché l’umanità è la stessa dappertutto, e proprio questa uguaglianza di fondo per paradosso è la fonte di mille incomprensioni anche violente.

All’opposto ci sono, forse più rari, gli scrittori-quando-leggono che leggendo escono da sé per andare verso o ritrovarsi altrove. È un viaggio senza meta teso all’ascolto di qualcosa che forse non esiste. La profonda insensatezza dell’andare verso un testo o una persona proprio per ascoltare quello spasimo bianco del non capirsi e quindi, di necessità e per conseguenza, tradurre (e scrivere, pensare, respirare).

(poi nella realtà immagino che ognuno di noi sia a volte l’uno e a volte l’altro)

Quindi tradurre – in tutte le modalità possibili del termine – è essenziale. Ma non vanno taciuti il dolore e la solitudine che questo comporta. La stessa profonda solitudine che non è, romanticamente, il punto di partenza della poesia, ma il punto d’arrivo.

Le foto che in questi mesi il satellite europeo Rosetta ci sta facendo arrivare di quella cometa che attraversa il sistema solare, oltre che di eccezionale bellezza, sono anche la migliore rappresentazione dello scrivere: tutta l’immensa quantità di sforzo e di lavoro necessari per arrivare, se ci si arriva, in mezzo a uno spazio in cui – per fortuna! – non contiamo, che non ha bisogno di noi e neppure si accorge del nostro infinitesimale essere lì per la durata di un battito d’occhi.

Da adolescente avevo immaginato di tradurre / riscrivere il Filottete di Sofocle (l’idea mi sarà forse venuta dalle Trachinie di Pound). L’abbandono e il dolore fisico di una ferita insanabile mi erano suonati vicini, per motivi legati alla mia vita di quegli anni.
Non ho mai davvero abbandonato questa idea e mi piacerebbe, un giorno, scrivere una mia traduzione “creativa” di Filottete con a fronte una sequenza di poesie di Yoshitsune – magari la stessa da cui ho tratto le poesie che citavo all’inizio -, così che i due testi si ritrovino in qualche modo spazializzati l’uno dall’altro

ciascuno a partire dal suo emisfero, come a mettere in scena i miei processi di lettura e i miei sforzi di visione del mondo

e così anche temporalizzati, da epoca a epoca e la violenza della natura e del vivere messa su pagina in modi opposti

con me soggetto lettore / traduttore in mezzo, magari finalmente intento a esistere


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