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Queen – Jazz (1978)

Creato il 23 agosto 2014 da The Book Of Saturday

JazzAmmetto di non essere mai stato un grande esegeta dei Queen, li ho sempre amati e schivati allo stesso tempo. Mi mettevano paura per la loro vastità e varietà dei generi trattati.

Un universo confuso, senza troppi punti di riferimento. Al di la dei primi due dischi, che possiedono una loro coerenza intrinseca al periodo, a preoccupare le mie convinzioni era sempre stata l’iperbolica matassa della loro vita centrale. Se dunque qualcuno provasse le mie stesse sensazioni, beh, posso consigliare Jazz.

Mettiamola così, una buona medicina per farsi passare il mal di testa da Queen e rimettere un po’ in ordine le idee sulle capacità di questa storica band. Riprendo così la mia impossibile scalata e dopo Queen I e Innuendo, torniamo al 1978.

STORIA. Partiamo da un dato, questo è un disco rock e non ci sono brani jazz. Lo dico perché lo dicono tutti, anche se non mi sembra una notizia così sconvolgente per chi conosce un po’ i Queen. Jazz è il settimo album di Freddy Mercury e compagni, una passeggiata lungo i sobborghi dei tanti generi popolari che in quegli anni si potevano affrontare senza per questo non incappare nella critica più feroce. Sull’onda della loro popolarità e reduci dal successo mondiale di News of the World (che conteneva le hits We Are the Champions e We Will Rock You) nel ’78 i Queen neanche tentano il bis. Concepiscono da subito un album spontaneo, orientato al rock come quelli passati ma allo stesso tempo affrontando diverse tematiche volutamente maleducate. A differenza dei dischi precedenti, la band decise di richiamare Roy Thomas Baker, produttore dell’acclamato A Night at the Opera. Per aggirare il fisco britannico incisero i loro pezzi tra la Svizzera e la Francia, e mentre Mercury prosegue la sua ascesa verso l’edonismo più assoluto Jazz si presenta alle orecchie della critica con l’irriverente singolo Fat Bottomed Girls che desta scalpore per una donna nuda in copertina. L’apice viene raggiunto dalla famosa festa al Fairmont Hotel il 31 ottobre 1978, dove in un mix tra legenda e realtà si dice che tra gli oltre 400 invitati sia andata in scena un vero party orgiastico.

IMPORTANZA. La critica non accolse benissimo Jazz. Mercury ormai si prendeva praticamente gioco della stampa e i media riservarono un trattamento eguale al disco. Nel numero di Rolling Stones del 1978, Dave Marsh definì i Queen una band «fascista», ma nonostante ciò in Inghilterra l’album arrivò al secondo posto nella chart mentre in America, dove i Queen si affacciarono con prepotenza solo l’anno precedente, si piazzò solo al sesto posto della Billboard 200. Nonostante l’accoglienza tiepida, Jazz conserva diverse tinte a colori in una varietà di tonalità grige. Mustapha, Bicycle Race, Don’t Stop Me Now e Jealousy, sono singoli che faranno storia. Nel complesso, un album senza acuti.

SENSAZIONI. Il che non significa scarso. Anzi. Ma se i Queen ci avevano abituati a dischi con uno o due brani da primato mondiale che si distinguevano dal resto, stavolta concepiscono un disco senza top tracks. Da Mustapha, dove Mercury tira fuori tutta la sua rabbia sociale, razziale e demagogica nell’insofferenza verso un dio che non sa ascoltare, all’ultima traccia, More of That Jazz («Basta altre chiacchiere»), Jazz fila via lineare, dove si distingue il lavoro pulito alla chitarra di May, la poliedricità di Mercury che spazia tra voce e piano e la solita umile potenza di John Deacon e Roger Taylor alla ritmica. Colpisce anche una certa, nuova, attenzione alla fase di registrazione che sa regalare un’immagine sonora tutta nuova dei Queen.

CURIOSITA’. Come detto, stavolta l’album non venne registrato in Inghilterra. Per i Queen era la prima volta all’estero in studio, ma i conflitti personali che regnavano all’interno del gruppo non si risolsero solo grazie al cambiamento di location: «Abbiamo litigato allo stesso modo di sempre», riferì Brian May in un’intervista successiva, «Erano diversi solo i motivi per litigare… Da tempo ci odiavamo l’un l’altro – confessò il chitarrista -, un paio di volte lasciai anche la band, ma si sa come succede, solo per un giorno e poi ci ripensavo: la fonte della maggior parte dei problemi era la paternità delle canzoni, ogni autore avrebbe voluto vedere le proprie canzoni su disco».



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