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Quei poveri liberali tra sfascismo e tecnocrazia

Creato il 19 luglio 2011 da Zamax

L’articolo uscito qualche giorno fa sul Financial Times auspicante un governo di tecnocrati dimostra che non solo non c’è alcuna alternativa reale al governo Berlusconi, ma non c’è neanche quella ideale, se chi si picca di liberalismo in Europa ed in Italia può venire a patti con un disegno che mina alla base ogni fiducia popolare nella democrazia liberale. “Un governo tecnocratico di ampio respiro” è poi una contraddizione in termini, se fosse democratico: sorretto da un’ampia maggioranza, e da esso dipendente, sarebbe tre volte più immobilizzato di quello attuale da veti e corporativismi vari. Per essere efficiente, dovrebbe avere poteri eccezionali. Per averli, il parlamento dovrebbe abdicare ai suoi, sotto la spinta della piazza. Anche se poi per qualche strano miracolo questo comitato di salute pubblica si rivelasse efficiente ed “illuminato”, i risultati poggerebbero sulla sabbia. Resi possibili dal populismo, quello vero, ossia da un sentimento popolare esacerbato o esaltato fino all’irrazionalità da minoranze di militanti, dal populismo sarebbero spazzati via, quando al direttorio illuminato facesse seguito, lasciandoci in eredità l’onere dell’ennesima ricostruzione, un direttorio più in sintonia con gli umori di un popolo non più avvezzo alle pratiche della libertà. Sorprende, ma non troppo, che chi rimprovera al ministro dell’economia Tremonti la filosofia aridamente contabile che ispira una manovra senza qualità, si faccia poi sedurre da un’idea che a un livello più alto ma ben più pericoloso è anch’essa miope, riduttiva e utilitaristica: fascino fatale delle scorciatoie.

Se l’Italia vorrà uscire rinvigorita e rinsaldata dai suoi problemi di fondo, che non sono solo suoi ma in misura diversa di tutti i “vecchi” paesi occidentali, lo dovrà fare attraverso il corretto e normale funzionamento delle istituzioni, in primis del parlamento, altrimenti sarà solo un vittoria di Pirro, o una fatica di Sisifo. Se la classe politica è meschina non è solo perché non viene selezionata con metodi plausibili, o perché la politica attira fatalmente l’umanità peggiore, ma anche perché riflette la nostra mentalità, anche perché siamo stati abituati a chiedere meschinamente alla politica di occuparsi di tutto, di legiferare su tutto fin nei minimi particolari, e di farsi carico degli interessi particolari di tutti. Alla politica, invece di un quadro legislativo parco, chiaro, stabile, abbiamo chiesto anche noi, nel nostro piccolo, garanzie e sicurezze ad personam, dal posto di lavoro agli incentivi per il fotovoltaico. L’abbiamo fatto, magari, nel nome della società civile, nel momento stesso in cui la stavamo distruggendo, giacché ogni società veramente civile si fonda sulla fiducia, non su una diffidenza che porta infine alla presunzione di colpevolezza universale. E ai giudici. Abbiamo voluto dare tutto allo stato e alla sua “giustizia distributiva”: invece che quella venisse a noi, abbiamo dovuto anche noi, nel nostro piccolo, impegnarci in una corsa all’accaparramento, all’assalto alla diligenza, e abbiamo scoperto che la lotta per la vita in una società statalista è altrettanto dura che in una società liberale, con la differenza che è molto più degradante. E’ essa che crea le caste, e con le caste, alla fine della filiera, quando finiscono i denari, i fuori casta, i suoi “intoccabili”: i precari. Quando invece solo in una società dove, in umile conformità alla nostra condizione esistenziale, tutti sono precari, e dove lo stato si preoccupa solo di fare lo stato, ossia di costituire una rete di salvataggio per chi cade, nessuno si sente veramente precario, ed in ogni caso chi è in difficoltà prova un sentimento di emarginazione meno umiliante.

La medicina amara delle mitiche riforme si applica a questa ipertrofia e a questo spirito. Le altre “riforme”, quelle invocate dagli ostinati retori della macelleria sociale, al massimo potrebbero ambire ad una fragilissima spalmatura dei privilegi. Ma i conti non tornerebbero. Urlare in coro contro la “casta” vuol dire ubbidire ad un impulso cieco e autodistruttivo, non allo spirito critico. Che lo faccia pure il Corriere della Sera, senza vergognarsene, è un segno che la malattia è profonda e che c’è una fazione, un partito, un’altra casta bella buona, che si prepara a raccogliere le spoglie dopo il macello. Solo nei miserabili uomini politici del centrodestra resiste confusamente la coscienza di tutto questo. Solo nel centrodestra berlusconiano si sono alzate critiche pertinenti, alcune schiette, alcune fin troppo riguardose, sull’insufficienza della manovra. E’ un piccolo patrimonio che non va disperso e sul quale bisogna costruire, ben sapendo che i nodi sono arrivati al pettine. Non c’è, razionalmente, altra possibilità. La barchetta berlusconiana è passata di tempesta in tempesta, resistendo allo sfascismo e alle pulsioni antidemocratiche dei cultori della legalità. Mandarla a fondo significa andare a fondo con essa. In questo quadro l’aventino “liberale” di questi giorni è una solenne sciocchezza, ma è anche un segno dell’elitismo congenito, insofferente, intemperante, impaziente, senza umiltà, residualmente “giacobino”, del liberalismo italiano, incapace di provare un po’ di comprensione per le paure e l’imbecillità dell’uomo della strada. Che in politica abbia sempre preso zero è matematico.

[pubblicato su Giornalettismo.com]


Filed under: Giornalettismo, Italia Tagged: Financial Times, Giustizialismo, Liberalismo, Silvio Berlusconi

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