Vivo il presente poiché credo sia benefico trarre emozioni profonde da ciò che accade ora, indipendentemente dai trascorsi o da ciò che verrà. Amo giocare in prima linea affrontando la partita meno, restare sugli spalti a tifare. Nonostante ciò vi sono momenti, dettagli legati ad un microcosmo del passato che ogni tanto riemergono con vigore, dei flash che avvolgono fino ad immobilizzarti impedendone ogni variazione di pensiero. Essi appartengono ad un passato remoto fatto di emozioni, scoperte e approcci alla vita guidati solo dall’ingenuità di un’età ancora imberbe. Così, capita che un profumo avvertito nell’aria ti prenda per mano portandoti lontano nei ricordi del tempo e, chiudendo gli occhi tu sia di nuovo là, in quella piazza, casa, stanza, cortile, soffitta dove ogni cosa trasudava sensazioni che andavano ad incunearsi nel tempo. Oggi, è una bella giornata di sole estivo, cielo azzurro e finestre aperte. Ad un tratto un intenso profumo di polenta invade la serena e metodica abitudine alimentare di evitare appesantimenti fuori luogo. E’ però così forte da non portarmi ad una semplice voglia di assaggiarne ma ricondurmi all’infanzia e adolescenza, spazzando via d’un colpo l’olezzo e il nauseante puzzo delle metropoli in cui per anni ho vissuto. Così, abbasso lentamente le palpebre lasciandomi trasportare e torno indietro nel tempo, risvegliandomi in Via Don Carlo Rosa al 47 a Calolzlocorte, nella stanza da ragazzo la domenica mattina, con il cantilenante ritornello di una madre, necessario richiamo ad una levata già tarda degna solo di pelandroni e figli viziati. Assonnato prendo la porta del bagno e riemergo dopo abluzioni che purificano da immorali adolescenziali sogni notturni. Il profumo del caffè penetra nelle narici mentre dalla finestra vedo nei prati del vicino, galline razzolare e mucche ruminare. Osservo l’orologio alla parete, sono davvero in ritardo. Tra meno di 40 minuti avrà inizio la messa delle undici e Suor Pellegrina non ammette ritardi nel coro, un vero terrore. Mamma ha già preparato camicia e pantaloni la cui zampa d’elefante mi sembra ogni volta sproporzionata e i colori della carta da parati fanno a pugni con la moquette. Cerco di darmi una mossa evitando altri rimproveri e il classico “uffa che palle”… da lontano sento però un battere di tamburi e piatti, corro alla finestra presa d’assalto anche da ogni altro vicino, è la banda del paese. Ho dimenticato fosse il 25 aprile e come ogni anno un corteo si snoda nelle vie cittadine con autorità e partigiani per raggiungere il monumento dei caduti posto sotto la chiesa ( un orrendo cubo di cemento, mi chiedo ancora chi sia stato quel genio di creatività a distanza di decenni). Ogni fiato di corno o soffiata di clarino è un’emozione e mi rammarico di non saper suonare per esser con loro, soprattutto in occasione dei concerti di piazza che ogni tanto celebrano davanti a tutto il paese. Corro a vestirmi e imbocco la strada, raggiungendo gli ultimi accodati al corteo. Passo di fronte a cancelli conosciuti, rivedo cani abbaiare, e campanelli troppo suonati. C’è il nuovo condominio verde, una realtà in un quartiere fatto di case di soli due piani; la casa del comunista, così dicevano le donne anziane passando “è lui che distribuisce l’Unità ai comunisti del paese, meglio stare alla larga”; vedo faccia di rana sulla sua poltrona nel cortile e il lavatoio in curva, dove il dolciastro odore di Tide, detersivo americano usato dalle donne piegate a lavare, riempiva l’aria lasciando che canali di schiuma si riversassero per strada . Insignificante nei giorni festivi ma traguardo importante nei pomeriggi di sole, quando tra ragazzi facevamo gare di corsa, quello era i cento metri calcolati partendo dal cancello di casa; era l’abbeveratoio quando sudati nelle partitelle di calcio ci evitava di salire in casa bagnati e sporcare per terra pavimenti appena incerati; il riparo per eccellenza quando il sole calava e si giocava a “topa” per nulla da confondere con altri tipi di giochi …un vero e proprio nascondino per innocenti creature che al massimo giocavano al dottore alzando i bordi della maglietta :) Accelero il passo, e trafelato salutando persone ed amici entro finalmente in chiesa. Maestosa come allora, mi rivedo piccolissimo dentro quelle colonne così alte che nei momenti di noia durante le messe (prediche sempre troppo lunghe) immaginavo di poter abbracciare con delle braccia da super eroe (Mr. Richards…allora andavano i Fantastici4). In sottofondo l’organo sta già suonando e vedo alcuni amici seduti in prima fila. Persone in anticipo riempiono le sedie nelle navate e Carletto accende candele genuflettendosi ad ogni piccolo altare. Mentre mi avvicino a quello centrale centrale sfilano i volti della Calolzio bene : il medico, l’avvocato, il maresciallo, il notaio, il nipote del vescovo e signora. Tutti sempre nella parte, abiti della domenica e camicia di un bianco folgorante inamidata. Impeccabili nella forma…peccato poi constatare con l’avanzare degli anni che quel candore celava macchie ben nascoste ai più… ma questa è altra storia. Raggiungo il coro e faccio la mia parte. All’ “andate in pace, la messa è finita” è come lo sparo di uno starter, in pochi secondi siamo già fuori prendendo a corsa le gradinate che portano all’oratorio mentre i grandi si salutano con grandi sorrisi e strette di mano fingendo interessi per la vita di persone che, girato l’angolo , dipingono come poco di buono e piene di difetti… esattamente in linea con le regole del buon cristiano. Dal cortile gli schiamazzi giungono forti, come pure i colpi di pallone picchiati a terra per colpire il canestro. L’eco di manopole girate ad alta velocità dei calcio-balilla dentro il bar non tarda a farsi sentire come pure gli applausi o i fischi dagli spalti del campo di calcio della mitica AC Victoria. Solo entrando nel bar mi ritrovo veramente bambino. Quell’odore pungente di sudore giovanile mischiato al profumo di centinaia di caramelle e liquirizie riempie l’aria che respiro. Ogni tentativo di resistere è vano; a nulla serve seguire le partite di ping pong in fondo alla sala, tifare per un filotto alla sala bigliardo… loro, le caramelle stanno sempre là e alla fine contando le cinque lire mi dirigo al banco e pecco di gola certo di esser assolto da un prete con la mano lunga . Poco tempo dopo cambierà destinazione rasserenando l’ambiente. Soddisfatto dall’aver ingurgitato frettolosamente dolciumi che guastan l’appetito esco e resto a guardare la partita ben attento ai rintocchi delle campane, a mezzogiorno dovrò tornare pena, una sonora sgridata e punizione. Infatti, di lì a poco tempo scaduto. Con i ragazzi delle case vicine basta un’occhiata e via si rientra. Le vie e le case scorrono a fianco investendoci dei soli profumi del classico cibo della domenica, lo stesso che provo appena salgo le scale ed apro la porta. E’ un profumo denso e corposo, tale da immaginarsi la portata nel piatto prima ancora di averla dinnanzi. E’ l’anticamera del piacere cambiarsi dal vestito domenicale controllando di non aver sporcato nulla, lavarsi le mani ed entrare in cucina. I piatti già in tavola, mamma, papà e fratello anche. Ma è quel profumo a penetrare nelle narici , quell’arrosto che aspetta lei: la polenta. E’ questa la mia domenica, semplice e tipicamente legata alle origini territoriali, forte nella sua tradizione. Gli anni vissuti nel mondo han abituato a ben altri profumi, odori, sapori ma non han cancellato l’unico vero sapore che racchiuda la storia di una giovinezza e un tempo che non appartiene più. Sul divano, respiro forte, cercando di inalare quel profumo più che posso, in profondità e solo allora riapro gli occhi, dinnanzi l’azzurro del cielo, il silenzio tipico dell’ora di pranzo e mi sento felice per aver rivissuto momenti indimenticabili solo per aver sentito un profumo . Sorrido e immagino le famiglie delle case accanto sedute a tavola con la polenta nel piatto, ignare di compiere gesti rituali semplici ma così importanti.