Il romanzo si sviluppa come un diario di viaggio. A scrivere in prima persona è appunto Mr. Stevens, un maggiordomo inglese che ha toccato il culmine professionale negli anni ’30, evocati attraverso il ricordo dei momenti più memorabili del suo servizio presso Lord Darlington di Darlington Hall. Mr. Stevens appare a tal punto compreso nel suo ruolo che sembra appartenere al luogo in cui lavora e che praticamente non ha mai lasciato.
Eppure da Darlington Hall si mette in viaggio verso la Cornovaglia, doverosamente ammirata nelle sue note dei sei giorni di viaggio, per la sua prima vacanza in tanti anni di lavoro. Scopo del viaggio è incontrare l’ex governante di Darlington Hall, Miss Kenton, ora Mrs. Benn. Sono passati vent’anni da quando la donna ha lasciato il lavoro per sposarsi e trasferirsi col marito in Cornovaglia. Occasionalmente i due si sono scambiati delle lettere e ora che Darlington Hall è stata acquistata da un americano e che il personale è stato significativamente ridotto, Mr. Stevens spera di poter convincere Mrs. Benn a tornare al lavoro, concludendo il suo matrimonio infelice e burrascoso.
Mr. Stevens è l’essenza stessa del perfetto maggiordomo ma la sua perfezione richiede sacrificio e Mr. Stevens sacrifica per essa la propria individualità ed i propri sentimenti: così mentre suo padre sta morendo, lui è stoicamente al suo posto in sala da pranzo e quando Miss Kenton piange, lui non si fa mai toccare, né commuovere dal sentimento di lei, ma riporta sistematicamente e dolorosamente, la conversazione su un piano professionale. Un amore potenzialmente ricambiato viene annientato con la stessa meticolosità con cui si pulisce l’argenteria di casa e la sua riprovazione scende implacabile sulla cameriera e il valletto che scappano per sposarsi.
L’”autoaddestramento” e la disciplina, la dedizione richiesta dalla “responsabilità professionale” non sono in fondo diversi da quelli, ammirevoli e tragici, previsti dalla rigida morale del lavoro giapponese. Non deve quindi stupire se il giapponese Ishiguro, che ha vissuto a Londra dall’età di cinque anni, abbia saputo creare un personaggio così mimeticamente credibile da incarnare esemplarmente alcune delle più interessanti qualità inglesi.
James Ivory, altro straniero (è americano) capace di indagare mirabilmente lo spirito inglese, nel 1993 ha tratto da questo romanzo uno dei suoi film più riusciti e coinvolgenti (vedi il trailer) grazie anche alle straordinarie prove d’attore dei due protagonisti, Anthony Hopkins e Emma Thompson. La sceneggiatura, firmata dalla sceneggiatrice di sempre di Ivory, Ruth Prawer Jhabvala, riprende fedelmente il libro, modificandone solo l’ordine temporale per ragioni di fluidità narrativa. La regia, trattenuta ed elegante, ricrea lo spirito del romanzo e cuce il film attorno ad Hopkins e allo stile irreprensibile di Mr. Stevens, mentre dosa con sapienza pubblico e privato.
Rivedendolo, mi sono resa conto di quanto Downton Abbey sia debitrice nel confronti di questo film, a partire dal giornale stirato in una delle prime scene della serie. E quando il vecchio padre di Anthony Hopkins sale a fatica le scale in Quel che resta del giorno, sembra proprio Bates appena arrivato a Downton: di sicuro Julian Fellowes lo ha “rubato” da lì. Si sarà detto: “Voglio qualcuno per cui si provi questa stessa pena mentre sale le scale, ma che non sia vecchio”, così è nato lo zoppo Bates. Quando la casa si attiva con tutta la servitù perfettamente accordata e coordinata come per un concerto in cui ognuno abbia il suo posto e la sua partitura: anche questo è stato preso dal film. E che dire dell’amore sconfinato che Mr Stivens-Opskins nutre per il castello in cui vive e che ama più di un essere umano? Anche questo tema lo troviamo straodinariamente sviluppato nella serie, dov’è centrale la devozione tributata alla proprietà di Dontown Abbey.
Ma, la scrittura è l’arte di rubare. La letteratura è una lunga serie di prestiti che diventano furti solo quando non funzionano, altrimenti sono, non solo legittimi, ma auspicabili. Quello che differisce tra il film e la serie è il tono: malinconico e in minore nel film, più gioioso e vitale nella serie.
“Mi capita spesso di pensare che terribile errore è stata la mia vita”: confessa Miss Kenton alla fine del film ed è ancora una volta un modo per dichiarare il suo amore al maggiordomo. Lui come al solito minimizza e non raccoglie quel momento di verità: “Sono certo che capiti a tutti di tanto in tanto”. E’ straziante, noi sentiamo che lui la ama ed è quello che ha sentito anche lei per tanto tempo, ma i due sono come treni che corrono paralleli su binari che non s’incontrano mai. E non s’incontreranno neanche di sera, in quella che per molti è la parte migliore della giornata, neanche in quel che resta del giorno…