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QUEL CHE RESTA DEL VERSO N.36: Parole dall’esilio. Alessandro Ghignoli, “Amarore”

Creato il 12 aprile 2010 da Retroguardia

Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)

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di Giuseppe Panella

 

Parole dall’esilio. Alessandro Ghignoli, Amarore, Bologna, Edizioni Kolibris, 2009

Alessandro Ghignoli vive da molti anni a Madrid (insegna nella prestigiosa università di Alcalà de Henares, la patria di Cervantes). Non credo che ne sia insoddisfatto. La sua amarezza, il suo amarore del titolo, nasce da altro. E’ innanzitutto un’insoddisfazione linguistica. Nella prima sezione, Predicamento di me, di quello che può essere considerato un fluente flusso poematico, un vero e proprio poemetto in tre stasimi si legge:

« prima descrizione. delle infinite volte a me dicendomi / di parlare l’italiano senza accento / e lasciare il dialetto da me usato / soggiogato da io al mio volere / creduto di saperne di lettere di plurali / di subiettivo e gerundio e coniunzioni / e tutti i resti d’avverbi che di mia vita / mi feci in costruzione o mi disfeci» (p. 11).

Il tono è alto-parodico (l’uso di termini fintamente arcaici o arcaicizzanti lo dimostra). Eppure nella parodia si infiltra (come il titolo del libro vuole) un nodo di amarezza. “Creduto di saperne” indica la messa in crisi, infatti, di un discorso tradizionalmente accettato e oggi messo in mora in nome di una lingua che si vuole meno artefatta ma che, invece, di fatto risulta tale. La lingua di Ghignoli vuole essere quella da sempre derivata e delegata alla poesia, non certo alla vita anche se poi, alla fine, i due orizzonti verbali si incontrano e si frammischiano.

« terza descrizione. Con ciò sia cosa che a ogni passo / l’infranto suono la sua copia / dei giorni le parole nella lontananza / nell’introduzione di così inimico tempo / un grido lasciato nell’indecifrabile / ombra mi appartengo sommosso / alla vuota malinconia del fondo / del nulla pensiero di impronta di me» (p. 13).

Il linguaggio si perde nell’indecifrabile, il suo vuoto è fatto del nulla in cui si perde a partire dopo l’epoca in cui sembrava essere reale e concreto (mentre ora di esso non è altro che la sua vuota copia). Tempo “inimico” certo ma anche “l’infranto suono” della parola della poesia si congiunge alla “vuota malinconia del fondo” – le parole non suonano più piene perché il tempo in cui potevano farlo è passato. Ma questo accade perché

« settima descrizione. questo vuoto è un corpo / che adopera le parole proprie / delle grida convenute / nell’ammutolire quieto / senza fiatare il frastagliato / suono dell’acerba mente / scopre il cheto suo balbutire / nell’altrui starsi a osolare invano» (p. 17).

La citazione da Jacopone da Todi (O peccator, chi te àffidato) marca il sembiante esterno della richiesta poetica e ne scandisce il percorso.  Ma la dimensione tutta interiore del testo, il suo “vuoto”, lega il corpo alla voce e da esso trae l’ispirazione per sollevarsi a livello di articolazione poetica. La balbuzie della parola copre e inferisce la dimensione piena dell’”acerba mente” che la realizza pur “senza fiatare”. Il vuoto non dà spazio al silenzio ma lo invoca nel momento in cui si accorge che anch’esso è in grado di dire la sua protesta esistenziale. Questo proposito riaffiora nella seconda sezione del volumetto, quella  dedicata alla Tristizia:

«1. l’inizio di questa tristizia di core e d’amistà / tra spinte e segnali a far di me di te / un poco niente un corpo / non più nel far delle cose / e sia dolore il tuo nome allora / non potevi illudere anche me / anche una sola e unica amica persona / ma dicendoci e dandoci un saluto / a noi molto paurosi a noi / tenendo il core in mano ora / nell’orrore del sapere nel dì che avvenne / nel poco tempo nostro di quest’ora» (p. 27).

Si delinea così la poetica delicata e rabbiosa di Ghignoli. Il dolore della vita si fa nome e parola nel momento in cui la “tristizia di core e d’amistà” si trasfonde e si inabissa nell’ “orrore del sapere” la verità che si vuole dire e sostenere nel verso. Questa verità altro non è che quella della lingua nel momento in cui si congeda dal corpo che la sorregge. Per il poeta scrivere raffigura il gesto dell’addio al mondo – o si vive o si scrive, soprattutto se si è “molto paurosi”. Ma proprio la paura della vita dà alla lingua la capacità di andare oltre e di dare l’ultimo saluto a ciò che si abbandona.

E così dunque la parabola dio Ghignoli si conclude nello spazio aperto dell’Amaritudine della parte terza:

«evento 3. sempre il proprio sempre di sempre / nel viaggio rimasticato in ditto e in fatto / mentre da lì lo sguardo futuro è il gioco / di chi fa il duro convinto d’esser solo / un po’ mite con le altrui vite / viste da lontano in quest’eterno evento / di fare di cose ognuna con le sue pose / nell’unica goccia la duplice eterna dose / manduca parole perché sian poi atti / e allora con fumisteria saltimbanchi e buffoni / mascherando la maschera con mano di cera / di fiacca illusione in questa lunga e larga attesa / sfuggendo dal fare ruffiano dal come fare / sfuggendo piano» (p. 49).

E in questo sfuggire piano, in questo manducare parole per trasformarle in atti che la poesia di Ghignoli si trasferisce dal piano del simbolismo linguistico su quello – più marcato – dell’espressività serrata e metaforica. La “mano di cera” è quella che maschera la verità che è a sua volta maschera del destino, illusione di libertà, gioco insensato senza uscite. La lingua maschera la mancanza di aspettative della vita illusoria delle parole di sempre e nel loro “viaggio rimasticato” si consuma la storia e il suo “sguardo futuro”. Fuori non c’è nulla se non l’amarezza del rimpianto e lo scatto in avanti della poesia.

In Amarore, Ghignoli si concede al piacere del testo e lo compone come un epitaffio per il passato. Il futuro della sua poesia sarà oltre di esso. L’esilio è finito.


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