Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)
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di Giuseppe Panella
L’anomalia del verso. Duccia Camiciotti, Ultima onda anomala, Firenze, L’Autore Libri, 2009
Scrive Anna Balsamo, con intelligenza e forte simpateticità con l’autrice di cui analizza le prospettive liriche e umane, nella sua Prefazione (La vita sta in una manciata di stelle: tra memorie e parole di denuncia e profezia) a questo ultimo (ma non certo l’ultimo!) libro di poesie di Duccia Camiciotti:
«Abituati alla espressa drammaticità degli avvenimenti privilegiata dalla poetica di Duccia Camiciotti in tutte le precedenti opere, abbiamo immaginato, causa il titolo di questa raccolta Ultima onda anomala, di trovare magari un poemetto lungo e dettagliato dell’avvenuta sciagura asiatica. Ebbene no, il titolo è invece una sorta di riferimento proprio a quest’opera: sono queste pagine e il riferimento epocale, l’ultima onda anomala; dove “ultima onda” sta a significare anche impressione ed espressione poetica più di recente meditata. Di seguito le “cartoline crudeli”: non esternano catastrofi, ma interiorizzano con dolore gli estraneamenti: “Qui si muovono dentro l’oro antico / oscurato di luce morente, / lemuri artistici; / sguardo abissale, gambe svettanti / e vanno e vanno / e non sanno perché” (Zombies del 2000); “La tua povera casa / che ancora non conosce / ferraglie aggiogate alle stelle” (Villino travolto dai grattacieli) » (p. 9).
Ed è proprio quello che si prova leggendo questo libro – Duccia Camiciotti si muove tra volontà di rammemorazione lirica e sdegno (cui talvolta non possono che mancare le forze per l’impossibilità a cambiare le situazioni e le cose) nei confronti del presente. L’”ultima onda” è quella dei sentimenti provati ed esternati, l’ultima possibilità di dire e soffrire e sognare proposta in parole.
Le quattro sezioni in cui è suddivisa la raccolta (Cartoline, Cartoline crudeli, Storia e…, Filosofia – ciascuna sottolineata da una citazione tratta da poemi di Dino Campana) ricordano proprio questo. Il mondo va osservato come da una finestra e tenuto, in certo modo, lontano dalle proprie vite perché il segno che poi il tempo e le vicende che lo riguardano profondamente vorrà imporre a fuoco su di esse potrà essere tragico e definitivo. Le “cartoline” diventano, per questo motivo, il punto di contatto con la realtà ma anche esse potranno ferire, essere, per l’appunto, “crudeli”. Non c’è più spazio che per i ricordi del passato o per le osservazioni sul presente. Il resto viene spazzato via dallo tsunami del possibile oblio. Del tempo che scorre nel presente non restano che le visioni di chi si rende conto di ciò che avviene guardandole da una finestra ideale. Per la Camiciotti, ad esempio, la notte è ancora il luogo del mistero anche se è ormai stata logorata dal suo divenire sempre più simile al giorno:
«NOTTURNO PERIFERICO. Troppo guardare il cielo alla finestra / d’una periferia degradata / ti folgora d’argento le pupille / con grandi stelle nell’inchiostro ardente / e pesanti lampioni di Natale. / Così che gli alberi dell’autostrada / a molti piani ed anse complicate / sembrano rami di cristallo e pino / su damascato velluto nero. / Fra suoni sghembi e urli / da Casinò di Los Angeles / il fantastico allora si congiunge / alle nozze di ferro / dove un guizzo drammatico prorompe, / strozzato / stonato. / E il ritmo ti rimanda / un fiore di mistero» (p. 18).
Ma non sempre il risultato è così pacificatorio, capace di rimandare ad una dimensione fantastica di risarcimento rispetto alla volgarità del tutto che risulta osservato. Più in avanti, nella seconda sezione, la difficoltà a sublimare aumenta. La morte e la crudeltà della vita incombe e si ritrova in testi più duri e meno “riconciliati”:
«APPARIZIONE. Strano, in mezzo alla folla / scoprendo quella fermata / nel caos scorgendo l’aurora / d’una sbilenca panchina / di legni intrecciata, / dove le nostre risate / danzavano tristi nel vento / forse presaghe d’addio, / t’ho visto, sul piano correvi / fra platani scuri e malati / correvi felice, capelli di seta / nell’aria silente d’un tratto, / oltre lo spazio e il tempo / alla mia volta ridendo. / Ma fu negato l’abbraccio» (p. 35).
Il finale agghiaccia e sembra mettere un punto fermo alle potenzialità sorgive del sogno. Ma non è così. Per fortuna, la memoria permette di realizzare ciò che il sogno non riesce a portare a termine compiutamente. Il ricordo, negato nella dimensione onirica, riaffiora e sanziona la verità dei sentimenti provati e goduti attraverso quelle esperienze di raccordo che gli permettono di ritrovarsi in sintonia con il passato (accade qui quello che la madeleine proustiana permetteva di sentire e di far affluire alla mente elaboratrice del Narratore nel primo tempo della Ricerca del tempo perduto):
«ANONIMO VENEZIANO (a Claudio). Certo non piansi mai come la sera / di quel settembre al tramonto del sole, / presagio fu l’incontro misterioso / con il soggetto cinematografico. / Lei che tradisce per opime sponde, / ma l’ama sempre e sempre l’amerà. / E lui che muore, artista infelice, / come Mimì nel suo letto di spine. / L’estremo amore prima della morte / nell’affocato cielo della sera / d’una città morente nella musica. / Venezia mia, o simbolo di grazia, / in quella stanza muta sulle calli / d’inverno. E noi folli e presaghi / di quell’ultima volta inesorabile. / Venezia, ti ho tradita, sono andata, / ed egli è morto così d’improvviso / dell’Eros immolato sacerdote. / Riprendeva l’essenza misteriosa / che gli avevo strappato, / in un contesto di muta bellezza / la verità, fustigata, moriva» (p. 42).
Venezia, l’amore, la morte, la memoria: tutti ingredienti di uno straordinario concerto sentimentale, vocale, umano e trascendente insieme. Lo scatto in avanti del ricordo si innesca al momento in cui la storia dei due amanti del film di Enrico Maria Salerno (basato su una straordinaria sceneggiatura di Giuseppe Berto, scrittore da troppi anni negletto in Italia) diventa la storia stessa di chi scrive per identificazione voluta con la città in quella vicenda si consuma, tragicamente, eppure trionfalmente. La morte consacra l’amore da cui nascerà poi la bellezza che lo rende infinito e mai più dimenticato. L’anonimo veneziano del titolo diventa Venezia e il suo continuo presagio di morte che, però, non è mai livido e funesto ma dolce desiderio di finire e di fluire, sciolto da ogni male.
La poesia di Duccia Camiciotti è fatta di questi continui soprassalti, di queste aspirazioni di verità, di questi sprofondamenti e sussulti di sogno ad occhi aperti. La sua essenza è fatta “dello stesso tessuto di cui sono fatti i desideri umani” – fragili, fievoli, frivoli o vaganti ma immortali.
Ne è prova uno degli ultimi componimenti della raccolta intitolata leibniziamente alle monadi che compongono il mondo nella sua continua circolarità di vita e di morte:
«Forse miracolo di monadi / che percorrono la medesima strada / e non s’incontrano, / eppure chi l’ha viste le ritrova. / Pendici come fianchi / cadute per caso là dove / essere non dovrebbero, / perché la meridiana le rinnega / e anche il calendario. / Così, dopo tant’anni e tanto mondo, / io mi ritrovo proprio là dov’ero, / in quanto semitono che battezza / un briciolo di spazio. / Morto in un tempo e in un luogo, / felicemente altrove ricompare» (p. 70).
Le monadi, elementi infinitesimi che stabiliscono la natura profonda della costituzione del mondo fisico e metafisico, non si possono vedere a occhio nudo, non si possono individuare e segnalare, non si possono più anatomizzare – eppure ci sono e costituiscono la struttura dell’Universo.
Così è della poesia – la cui sostanza non si vede né si tocca, eppure c’è nei momenti bui e drammatici dell’esistenza, nella morte, nella vita, nel piacere, nel dolore, nella lattigine assolutamente buia eppure lucidissima di chi sogna senza sapere di farlo.
La ricerca lirica di Duccia Camiciotti, dunque, cerca un approdo laddove non è possibile trovarlo se non attraverso le sue parole bagnate di piante. Nella sua scrittura serrata e conserta, limpida e sfuggente sempre altrove, il nodo costituito dal dolore si scioglie per vie misteriose, assorte, rimbalzanti tra realtà e ricreazione assorta di un mondo-non-più-vissuto. In esso la poesia trova una sua solitaria ragion d’essere e di vivere, mito incalzante ciò che è transitorio, duraturo approdo di chi conosce la vita e il suo contrario.
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