Lezioni di intimità. Roberta Degl’ Innocenti, Un vestito di niente, prefazione di Paolo Ruffilli, Venezia, Edizioni del Leone, 2005; Roberta Degl’Innocenti, D’aria e d’acqua le parole, prefazione di Paolo Ruffilli, Venezia, Edizioni del Leone, 2009
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di Giuseppe Panella*
Scrive Paolo Ruffilli nella sua nota introduttiva a Un vestito di niente della Degl’Innocenti che è del 2005 e immediatamente precede D’aria e d’acqua le parole, quasi suo preludio simbolico e in qualche modo simpatetico:
«La poesia di Roberta Degl’Innocenti è commisurata a regole precise, a canoni addirittura classici. Limpida, trasparente, lucidissima, sul piano della forma; ma densa e avviluppata in improvvisi nodi drammatici, quanto a sostanza (“Respiro aria in odore di tempesta… In pensiero limpido pianto erba maligna”). Anche se alla fine la ricomposizione delle forze, sia pure attraverso spasmi e singulti, fa dichiarare: “Respiro aria in sinfonia di tramonto”. Dove, a vincere, è la pace. In un bilanciamento, improvviso, di paura e desiderio (binomio o aporia cari all’autrice di questi versi). La fuga del tempo, il defilarsi delle occasioni, la corsa in avanti e, in fondo, il dissolversi graduale della vita non hanno partita vinta in questa poesia, che appare consegnata alla consapevolezza dell’incontro paradossale tra l’eterno e il tempo, tra l’infinito e il finito, su una linea di confine che la morte non sembra in grado di violare» (Un vestito di niente, pp. 6-7).
In effetti, le poesie che Roberta Degl’Innocenti ha consegnato a questo suo libretto di sussulti e vocazioni, di confessioni e di riguardi nei confronti del mondo sono legate ad una dimensione di conforto e di sogno, di consapevole scelta dell’intimità:
«Sete d’ansia. Era sete d’ansia quel brivido d’amore / che sfiorava la pelle in ruvide carezze. Odore di lavanda nei prati grondanti / arcobaleni e voglia nelle ossa di ridere / la noia in fuochi bassi, accesi nelle notti / senza luna, a tormentare il buio dei sospiri. / Odore di lavanda e rosmarino. / Così diversi dal rosso dei pensieri / da nascondere in velo di pudore, / inquieti fino al fondo degli abissi. / La carta zampillava stille tonde, / tormento, estasi di pianto. / Pioggia e lacrime in simbiosi d’amore. / Desiderio ribelle e mani grandi / a tergere la pelle in carezze sudate. / Era sete d’ansia, mentre i pensieri / spogliavano la noia» (Un vestito di niente, p. 32).
La vita si conquista offrendosi in sacrificio ad essa. La “sete d’ansia” è fatta di voglia d’amore, di desiderio sottile come una lama che scende nel corpo a insidiare l’anima in un sussurrare continuo che si congiunge agli odori di piante officinali e di mistero. L’ansia scaturisce dalla necessità di indagare questo mistero che non ha significato ma che si ritrova, come un dono comune all’esistenza di tutti, nel senso generale delle parole che lo indicano e lo approssimano ogni volta che si manifesta. La poesia si conquista gli spazi lasciati liberi dall’ansia attraverso il suo gioco sottile di desiderio e di rivolta che punta alla conquista di un amore segreto che solo può abbracciare tutto il mondo. I pensieri non bastano, vanno nascosti e solo rivelate sono le aspirazioni del bisogno di scendere “al fondo degli abissi” per cercare la propria anima non ancora rivelatasi.
Questa “sete d’ansia” si manifesta intatta e sognante anche nel libro di poesie del 2009 dove gli echi dell’anima si sostanziano di parole più ricche di allusioni, di colori più forti, di metafore più vive:
«Un sorriso in tasca. Un sorriso in tasca, è quello che mi occorre, / per pagare il pedaggio al gabelliere. / Un sorriso piccolo, una smorfia, da guardare / ogni tanto, sbirciandone le curve sottovoce. / Vernice rossa. Imbrattatele distratta. / Un sorriso per finta, è tutto ciò che voglio, / da incollare furtivo, leggero sopra i fiati del pensiero. / Curvilinea la notte, predatrice di sogni, / boccioli viola sui seni galeotti. / Un sorriso, uno sballo, un gioco della sera, / da stampare sui vetri con ali ciclamino. / Uno sguardo, un sospiro, incantesimo vermiglio, / senza maghi né santi a chiudere corolle. / Fattucchiera a perdere con occhi di turchino. / Uno scherzo, un refolo, un cruccio libertino / su sentiero di labbra. Rosse. Labbra aperte, / briccone, da tenere nascoste. / Sbirciandone le curve sottovoce» (D’aria e d’acqua le parole, p. 38).
I colori prorompono in una festa di luce e di atmosfere e il grigio viene spazzato via dalla violenta epifania della bellezza racchiusa nei dolci segni dell’incantesimo coloristico della realtà attraversata quasi con disincanto, con un sorriso furtivo, da “gatto del Cheshire” che si è dipinto di rosso.
A questo proposito, in relazione cioè alla poesia di Roberta Degl’Innocenti e della sua capacità coloristica, capace di rendere densa e forte la dimensione plastica delle sue descrizioni e dinamica la volontà di diversificazioni delle immagini che propone, anche Paolo Ruffilli declina:
«C’è una misura elegiaca della poesia, dai colori però vivaci e dallo spazio definito in un oltre visionario (“I colori non sono mai assoluti. Si specchiano l’uno dentro l’altro, divengono vele, voce di conchiglia, amori”), che è quella del ricomporsi del tempo, del materializzarsi nell’oggi del trascorso e compiuto, della riconsiderazione in essere anche del già stato. E’ la poesia in cui a dominare la scena e a determinare lo specifico letterario sono, sì, l’impulso automatico al ricordo e la spontanea rimemorazione, ma insieme anche la reinvenzione di una realtà globale dentro la “favola bruna” (per usare il titolo di uno dei testi) che si affida alla visione e al sogno e ai nomi di meraviglia con cui visione e sogno sanno dare pronuncia alle cose della nostra vita. Di questa poesia è un esempio di maturità umanità ed espressiva D’aria e d’acqua le parole di Roberta Degl’Innocenti » (p. 5).
Il mondo della poesia di Roberta Degl’Innocenti è tutto intessuto di queste visioni di sogno che trasmutano e trasmigrano in un orizzonte naturale ma come sognante e un po’ attonito, fatto di trasalimenti e di aspirazioni ad un oltre che lo ferma e lo costituisce in un gioco di luci e ombre della sua scrittura mescidata e composita di colori e di ricordi sensorialmente forti e trabalzanti. Si tratta – come nota giustamente Ruffilli – di una “reinvenzione” del mondo esterno e interno della poetessa che si traduce in un fondale sul quale si proiettano aspirazioni e ricordi. Si pensi alla Panchina rossa di Lugano, in settembre:
«Sulla panchina rossa recitano le ore, / storie di cappa e spada, un impeto fulgente. / Quando l’eco dei versi confonde la corrente, / capricci bianchi inciampano, sorprendono / le reti. Lugano assorta, inquieta nel rigore. / Alabastro di grigio sui tetti addormentati, / sui rami certosini degli alberi composti. / Scende un torpore liquido, accende nostalgie, / galleggia fiori rosa, retaggi di respiri. / Sortilegio d’ombra. Fruscio languore. / C’è un respiro di lavanda, enigma del vento, / palpebra viola accesa sulle ciglia. / Lontano, mistero del monte, acero di rugiada, / tremano sensi arresi. / Lugano, vagabondo cielo, farfalla incapricciata, / Lungo viali malìa migrano desideri. / Sulla panchina rossa il canto si fa neve, / la sera si stupisce, sanguina tregua breve. / Un verso balbetta il silenzio. / Martello confine sul limite del giorno» (D’aria e d’acqua le parole, p. 54).
“Un verso balbetta il silenzio” – l’aspirazione alla parola si congiunge con il sonoro di un silenzio che sembra più significativo di ogni possibile frase pronunciata.
Come si può vedere, sono le sinestesie a dominare in questa lirica e gli odori come pure i profumi si arricchiscono del desiderio di avventure perse lungo il cammino della vita in attesa di una loro trasformazione in favole esistenziali. La “panchina rossa” è il simbolo rastremato di tutto quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Il “torpore liquido” dell’attesa scandisce un passaggio simpatetico attraverso i luoghi del sogno. La bellezza dell’autunno fa scaturire le immagini del discorso poetico di Roberta Degl’Innocenti che di essa si nutre. Il susseguirsi impalpabile (ma pur sempre implacabile) delle figure immaginate si trasforma in un processo di sensazioni e di emozioni che conducono allo scioglimento finale: il sole tramonta e l’immagine si dilegua.
Lo stesso avviene in Firmamento di luce, la poesia che chiude la raccolta:
«C’è una strada di curve e saliscendi, / età smarrite si strusciano alle case. / Quattro fiori e un portone. / Quattro fiori da scrivere leggeri, si aprono / di notte, criniere sogno, levità di steli. / Si ferma il tempo dietro le lancette, / annoda pane e lacrime. Cespugli, i silenzi. / Un portone, una scala che sale serpentina, / occhieggia lucido l’ottone, specchio di vele. / Hanno pupille i respiri, camminano nei guadi / con cipiglio struggente, si cibano di rose / e foglie d’edera. Migrano assorti. Sono soli. / C’è una strada di rughe e fichi d’india, / cortile incapricciato di tenerezza d’ombra, / quattro fiori dimorano il tempo, si aggirano / gemendo stanze vuote, semi d’amore divenuto / spiga e poi frumento, forte, impavido alla falce. / Vado spesso a trovarli, non posso farne a meno. / Annuso chiacchiere fumose, mescolando carte. / Dolce il pensiero che scivola leggero, / scavalca mura alte, se ne appropria. / Deja-vu Casa Incantata. Languido torpore. / C’è una strada dove vivono gli Amori. / Tate, gioco di sillabe, cuore generoso. / Di nebbia è il tempo, polvere di farfalle. / Firmamento di luci alla collina» (D’aria e d’acqua le parole, p. 79).
E così il conto torna: le “curve” e i “saliscendi” della strada diventano un percorso del cuore che ha alti e bassi, sogni e deliri, desideri e piaceri, scarti e smacchi. Gli oggetti inanimati, gli edifici, ciò che apparentemente non sembra avere vita e personalità propria si riempie di senso e parla con i suoi colori, i suoi profumi, il suo stesso essere un’ombra che si profila nel crepuscolo: è questa la forza della poesia, il potere delle immagini, il significato della scrittura in Roberta Degl’Innocenti.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)