KINDERTODENLIEDER. Maria Rita Bozzetti, Sulla soglia, Roma, Lepisma, 2010
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di Giuseppe Panella*
Fin dalla soglia di questo libro il tono tragico si presenta elevato anche se, forse un po’ improvvidamente, ad aprirlo (e ad invitarne alla lettura) ci sono ben sei testi di presentazione che forse allontanano il lettore dall’impatto con la liricità dell’evento poetico. Da essi citerò soltanto una frase di Raffaele De Giorgi, non a caso un filosofo e sociologo del diritto:
«La nostra società è violenta in modo diverso dalle altre e la sua barbarie è anch’essa soltanto diversa. Entrambe, violenza e barbarie, sono tipicamente moderne e, più che con le coscienze, hanno a che fare con la dimensione temporale della produzione di senso in questa società e quindi con la rappresentazione di sé che essa appresta a se stessa. Questa società, infatti, si rappresenta come società del mondo perché in ogni comunicazione il mondo è presente come orizzonte della produzione di senso. Questo orizzonte rende accessibile un eccesso di informazioni che ci inondano di ridondanza: è come se sapessimo già che cosa significa ciò su cui di volta in volta comunichiamo» (p. 13).
e un’altra, più contestualizzata dal punto di vista della visione poetica, di Dante Maffia:
«La poesia deve essere la coscienza degli eventi umani, ovviamente portata in una dimensione universale senza mai farsi ideologia o politica tout-court. Ormai la Bozzetti ha accumulato dentro di sé una massa enorme di “notizie” che ribollono. Ha coscienza della crisi in atto – crisi profonda con connessioni complesse e complicate che mai hanno assunto una dimensione così rilevante – e sa che per superarla c’è bisogno di essere presenti e avere il coraggio di guardare le cose come stanno» (p. 42).
Ma il libro di Maria Rita Bozzetti e la sua volontà di comunicare il disagio e la rabbia che la violenza contemporanea nei confronti di chi è indifeso e soprattutto nei confronti dei bambini “umiliati e offesi” dalle innumerevoli guerre che scandiscono il passare degli anni sul pianeta Terra non andrebbero al di là della pur generica indignazione per questi fatti mostruosi e dolorosi se non fossero appoggiati a una dimensione poetica di elegia e di denuncia che li rendono peculiari dal punto di vista lirico ed enunciativo. La Bozzetti – e lo dice espressamente nella sua breve Nota d’autrice – vuole provarsi a condurre la dimensione poetica oltre la soglia della morte, oltre quel luogo di fronte al quale di solito la parola e lo sguardo si arrestano e si abbandonano alla pura dimensione del lutto e del pianto. Nelle sue poesie “sulla” (e oltre la) “soglia”, l’autrice cerca di trasformare quelle manifestazioni di dolore e di sofferenza in parole che siano, da un lato, emozioni condivise e, dall’altro, espressioni formalmente adeguate al ritmo di quelle sensazioni e di quella stessa com-passione provata e sofferta direttamente in prima persona. Di conseguenza, le sei sezioni in cui il libro è suddiviso (Prima della soglia, Sulla soglia, Sul giornale, L’indifferenza, Preghiere, Vittime) sono altrettante stazioni di una possibile via Crucis che parte da ciò che precede la soglia per giungere a prefigurare ciò che segue e giunge ben oltre di essa. La morte resta sempre e comunque all’interno di questo circolo di pietà e di denuncia che suggerisce non solo la necessità di un mutamento epocale nell’atteggiamento da tenere di fronte all’orrore costituito dalla perdita di innumerevoli vite umane giovani e incolpevoli ma anche la sua assoluta perentorietà.
Impedire che il massacro dei bambini continui è l’obiettivo di questo volume di elegie che, per proporlo e bandirlo, ha scelto però di usare soltanto le armi della poesia. Di conseguenza, l’incipit del libro non può essere che un ammonimento:
«I bambini morti e quelli uccisi dall’indifferenza. Cade la vita / dei giochi a nascondino / da notti strette al seno / da mani sullo sdentato sorriso / da occhi in gara di aquiloni // cade senza rumore / e senza eco d’esistenza : / spogliata dall’indifferenza / nella memoria si muove vuota / e confusa ombra insegue nel nulla / una voce per dare volto e corpo / all’anima che è stata bambina. // Un silenzio rumoreggia di colpe / le coscienze spettatrici del male / e una speranza stagna nei deboli sforzi / di offrire amore a chi dalla morte fugge» (p. 49).
L’obiettivo poetico di Maria Rita Bozzetti non è, di conseguenza, la messa in scena della morte e delle sue dinamiche ma risulta, alla fine, quello di scuotere le coscienze anche attraverso l’evocazione e la messa in evidenza di immagini conturbanti e commosse rispetto a quello che è avvenuto e che continua ad avvenire dappertutto nel mondo. La polemica della poetessa riguarda, quindi, in modo particolare, l’indifferenza ottusa e l’acquiescenza dell’Occidente civile e opulento rispetto alla questione stringente e ineludibile del rispetto delle vite umane di quelli che sono da sempre i “dannati della terra”. Per questo motivo, tutto risulterebbe certo inutile se alle parole non dovesse seguire un’adeguata presa di coscienza ma, di fronte all’assenza di quest’ultima e alla consapevolezza della colpa di cui l’Occidente dovrebbe farsi carico, subentra una disperazione esistenziale che si rivela e poi si mostra con i caratteri della con-divisione di quel destino di morte:
«Il bimbo e il fucile. Dietro un fucile la piccola mano sostiene / un grilletto svitato dal percorso di morte: / uno sguardo ignaro sorregge il peso della foto, / e gli occhi si incrociano spauriti con il mondo. / Lembi di vita svestita si arrampicano / sui muri di guerra diroccati e imprecisi, / un vecchio tegame raccoglie l’acqua e la vita. // Così rumoroso è il dolore che sembra / piangere anche il sasso sorpreso prima del buio: / così pieno di lacrime è il testo delle parole che è un singhiozzo questa muta memoria. […] Punta il fucile anche contro me, piccolo soldato, / uccidi senza colpa chi non ti ha salvato / dalla morte dell’innocenza, dalla fine della libertà, / uccidi pure chi fotografa il tuo soffrire e non piange / con te e per te il tuo dolore. / Spara contro il palazzo insensibile del potere / le tue cartucce di pietà e di tenerezza: / cerca le bombe dell’infanzia da gettare contro / il vecchio immobilismo che vuole morti / i giovani per finire la guerra e cercare la pace. // Al tuo sorriso caduto nel secchio che raccoglie / fiori di vita strappati da violenza, cederà / l’ingordigia della nostra fame mai sazia di morte» (pp. 90-91).
La poesia di Maria Rita Bozzetti è fatta di questi flash drammatici, di queste lunghe riflessioni elegiache su di esse, di questa volontà di andare oltre le parole e il loro apparente lampeggiare e infuocarsi (“Furore di parole” si intitola un testo lirico riportato a p. 99). La dolente e irredenta passione che anima questi versi non trova in essi (e come potrebbe farlo in questo modo?) soluzione e conforto ma solo la conferma e la necessità di un nuovo alimentarsi di dolorosa attesa. L’indifferenza del mondo le pare cosa esecranda ma anche l’indignazione a poco prezzo fatta di pure parole di condanna le pare inutile e sovente ripiena soltanto di una volontà di auto-esaltazione, di voluttuoso e “narcissico“ rigonfiamento dell’Io (come direbbe un Gadda sarcasticamente) che elude il problema e lo trasforma in retorica bolsa e senza respiro. Invece bisognerebbe “tagliare le parole” (p. 98) e farne uno strumento aguzzo e repentino di lotta, di affanno, di recupero di quella sofferenza e di quel “niente di dolore” che esse sembrano evitare e che, invece, scivolano apparentemente pacifiche. Le parole che la Bozzetti vorrebbe utilizzare nella sua guerra contro la Guerra dovrebbero, invece, essere “pietre” intrise di sangue e lacrime, soggette per loro natura a scandire e scolpire il futuro cammino umano conducendolo passo per passo verso l’abbandono dell’istinto di morte, strappandogli la maschera demoniaca che lo costringe a simulare la gioia mentre apporta soltanto morte e dolore.
«La vita come intonaco. Si sgretola dal corpo la vita / come intonaco dai muri del tempo // slaccia nodi di domande e affetti / raccolti in pacchi da viaggio: // si srotola dipanando incerti legami / e s’adagia in pausa lineare di respiro, / lungo silenzio senza ritmo di dolore, / incastrato nel petto di chi assiste / come lancia di cui poter morire. // Allora la morte come regina di pace / taglia corde urlanti in vibrazione, / slega mani inchiodate da tortura, / sazia il sussulto nudo fermando il corpo / e sulla terra lascia il pianto del sangue, / seccato testimone di una resa. // piange da lontano il cuore / che non può fermare il male / anch’esso preda di durezze estreme» (p. 53).
In questo anelito al pianto, in questo sgretolarsi punto per punto della corazza che cinge l’indifferenza umana nei confronti del “dolore offeso” (come direbbe a sua volta il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov) e che permette agli uomini di ricongiungersi gli uni agli altri quando il momento cruciale della morte sembra essere arrivato e non si può più allontanare, risiede il senso profondo dell’operazione poetico-umana di Maria Rita Bozzetti.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)